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Parrocchie storiche di Palermo: la parrocchia di S. Nicolò alla Kalsa

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Facciata-della-chiesa-di-S.-Nicolò-alla-Kalsa-dopo-il-1654

Facciata della chiesa di S. Nicolò alla Kalsa dopo il 1654

di Giacomo Cangialosi

La memoria più antica di questa chiesa è del 1306, anno in cui Don Giovanni Chiaramonte vi fondò la cappella della propria famiglia dedicata al SS. Crocifisso e dove collocò l’immagine eponima che nel 1311 venne trasferita nella Cattedrale dove ancora oggi è venerata nel transetto di sinistra. Ma Mongitore supponeva che la chiesa fosse più antica e nuovi ritrovamenti documentari la datano addirittura anteriore al 1219.

Anche questa chiesa veniva detta dei Latini (come quella dell’Albergheria) per distinguerla da quella detta dei Greci (S. Nicolò la Carruba). Subì vari rimaneggiamenti nei secoli, non ultimo l’abbattimento della torre campanaria settentrionale quando venne prolungato il Cassaro nel XVI secolo.

Nel 1654 venne rifatto il prospetto dal parroco don Francesco Vetrano e vi si collocarono otto statue in stucco: al centro sulla porta principale l’Immacolata, ai fianchi sulle porte laterali i Ss. Andrea e Giacomo minore, nel primo ordine i Ss. Ambrogio e Agostino, ancora più in alto i Ss. Gregorio e Girolamo e in cima al centro S. Nicolò vescovo di Mira.

Nel 1763 il parroco don Federico Saverio Di Napoli la fece rivestire all’interno di stucchi con dorature e commissionò gli stalli del coro in presbiterio. Nel 1817, per gravi danni strutturali, il titolo parrocchiale venne trasferito nella chiesa della Catena mentre la chiesa venne demolita in seguito al terremoto del 1823 che funestò la città arrecando gravissimi danni a molti monumenti. Nel 1941 la parrocchia venne trasferita alla Pietà. Negli anni ’80 del XX secolo il titolo parrocchiale venne trasformato in quello della chiesa ospitante.

La chiesa occupava l’attuale piazzetta S. Spirito a Porta Felice e aveva l’altare maggiore orientato ad est e la facciata in stile gotico. Aveva tre porte nel frontespizio e una che dava sul Cassaro. Sul fianco meridionale si trovava il campanile residuo. La chiesa era a tre navate separate da pilastri e archi. Nel presbiterio, patronato della famiglia Imperatore e poi dei Benzo duchi della Verdura, gli stalli per l’ufficiatura e l’altare neoclassico. Nella navata di sinistra la prima cappella era dedicata alla Madonna delle Grazie e vi si venerava un bassorilievo della Vergine con il Bambino della bottega del Gagini, seguiva la cappella dei Chiaramonte (dove si trovava in origine il Crocifisso anzidetto) e vari sepolcri della famiglia, notevole quello di Lucca Palizzi, quindi la cappella di S. Andrea fondata da Rugiero di Senesio dove si trovavano altri sepolcri e la tela di Giuseppe Albina detto il Sozzo raffigurante “La Madonna con i Ss. Andrea, Filadelfio, Alfio e Cirino”.

Nell’altare di S. Nicolò si venerava la tela di Giuseppe Albina e la cassa reliquiaria in argento dello stesso. Nella sacrestia vi era la pianta del Distretto parrocchiale nel 1766 purtroppo perduta (anche se esiste la documentazione fotografica). Ai tempi dell’Inquisizione vi tenevano cappella gli Inquisitori mentre il primo parroco dopo la riforma del 1600 fu Don Giovan Battista Di Gerardi. Annesso alla chiesa dal lato meridionale vi era l’Oratorio del SS. Sacramento fondato nel 1590 che era decorato con stucchi di Giacomo Serpotta raffiguranti gli Apostoli e sotto ognuna un teatrino con storie della loro vita mentre sull’altare si trovava un quadro del Guercino. Anche l’oratorio venne demolito in seguito ai danni del terremoto del 1823. Molte delle opere d’arte sono ancora rintracciabili: alla Catena il fonte battesimale, il bassorilievo marmoreo con la Madonna e varie lapidi e sarcofagi fra i quali quello di Lucca Palizzi; alla Pietà la tela di S. Nicolò con la cassa reliquiaria in argento; in Cattedrale, come già accennato, il Crocifisso detto Chiaramonte; la tela del Sozzo raffigurante “S. Andrea e altri santi” alla Galleria Regionale di palazzo Abatellis; alcune colonne in cotognino vennero riutilizzate nella cripta della Madonna del Lume ai Cassari ma pare siano state trafugate; resti delle strutture murarie con le belle monofore e bifore furono sistemate dal Duca di Serradifalco nella propria villa all’Olivuzza dove si trovano ancora.


Scempio nella chiesa dell’Immacolata Concezione al Capo

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di Giacomo Cangialosi 

Quando, dopo l’Unità d’Italia, venne deciso di edificare un grande teatro lirico presso Porta Maqueda. Venne anche segnato il destino del monastero e della chiesa delle Stimmate insieme a quello di S. Giuliano, mentre di quello di S. Vito si preferì operare una trasformazione radicale. Nel 1875 iniziò la demolizione del monastero delle Stimmate delle Clarisse e della fastosissima chiesa dove si trovavano, oltre a opere d’arte del Serpotta e del Patricolo, anche manufatti di notevole interesse artistico.

Molti di questi oggetti vennero affidati a musei e ad alcune chiese del centro storico: gli stucchi di Serpotta al Museo Nazionale (oggi nella chiesa di S. Maria della Vittoria sotto l’oratorio dei Bianchi), un altare in lapislazzuli alla Cattedrale (cappella di S. Agata), due tele settecentesche alla chiesa degli Scolopi (oggi dispersi), la tela con la Trinità del Patricolo a S. Croce (distrutta dai bombardamenti insieme alla chiesa) mentre armadi da sacrestia, torcieri, credenze e la Sede presidenziale con i 4 sgabelli per i ministri alla parrocchia di S. Ippolito.

Proprio della Sede Presidenziale oggi viene consumato lo scempio. La bella poltrona settecentesca con ancora integra la doratura originale e i cuscini in shantung di seta ricamati in oro si trova da alcuni anni nella chiesa dell’Immacolata Concezione al Capo ed è quì che si è consumato questo “delitto”. Pare sia stata “restaurata” per volere dell’attuale amministratore parrocchiale il quale avrebbe permesso che venisse carteggiata (notizia non confermata) e ridipinta in maniera non idonea. I bei cuscini, su cui sedette anche Giovanni Paolo II durante la visita pastorale a Palermo dei primi anni ’80, sono stati sostituiti da una brutta stoffa rossa che colpisce l’occhio! “Usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?”.

Fin quando i nostri beni monumentali saranno affidati in custodia, e ripeto IN CUSTODIA non in proprietà, a individui che non hanno sensibilità artistica? Come può la nostra città tollerare ciò? Ormai anche tali oggetti, considerati precedentemente arte minore, assurgono a importanza storico-artistica perchè segni di un’ epoca e la Sede Presidenziale in oggetto, forse la più bella che c’era in città, è stata irrimediabilmente alterata e menomata nella sua bellezza. E tutto accade perchè qualcuno senza averne alcun diritto, (ripeto i parroci e/o gli amministratori parrocchiali come in questo caso devono solo custodire perchè non sono i proprietari nè degli oggetti nè della parrocchia) si arroga diritti che non gli appartengono.

Oltretutto ho saputo dall’Ufficio Beni Culturali dell’Arcidiocesi, alla quale spetta dare il nulla osta per tali operazioni, che non erano stati informati di questo “restauro”. Si auspica che il responsabile venga interpellato e che vengano presi gli opportuni provvedimenti anche legali (eventualmente con il ripristino, ove possibile, a sue spese).

Sedia presidenziale prima del "restauro" sgabello prima del restauro Sede presidenziale dopo il "restauro"

Tram, Occhipinti: “Sostituire subito le macchinette”

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Filippo Occhipinti

Filippo Occhipinti

“Le macchinette per i biglietti del tram non solo non danno resto, ma producono anche un’altra vessazione agli utenti: rubano tempo. Infatti, facendo il biglietto in una di queste macchinette, la durata dei novanta parte immediatamente alla stampa del tagliando, indipendentemente da quando si sale in vettura. Le macchinette vanno subito cambiate o modificate. Consiglio agli utenti di comprare il vecchio biglietto per gli autobus e obliterare dentro la vettura , è più giusto e più corretto”. Lo dice il consigliere comunale di Palermo del gruppo Misto Filippo Occhipinti.

“Inoltre non è possibile che l’Amat non faccia partire nuovamente il biglietto elettronico, tramite le App, che è una risposta moderna a una inefficienza nei canali di distribuzione attuali. Il cittadino e utente deve avere anche la possibilità di fare il biglietto sopra il tram e per il tramite del suo smartphone. Segnalerò tutte queste inefficienze al presidente dell’Amat e al sindaco: il Tram deve essere messo in condizione di essere utilizzato”.

Gruppo di giovanissimi rapina studente fuori sede, arrestato 15enne

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polizia-auto-1Un quindicenne è stato arrestato dalla Polizia perchè ritenuto tra gli autori di una rapina aggravata ad uno studente fuori sede. In via Michele Cipolla, un 30enne trapanese, è stata aggredito e rapinato da 4 giovanissimi.

Il 30enne ha avvicinato i quattro, chiedendo loro indicazioni per raggiungere un pub della zona.  I quattro si sono offerti di accompagnare il giovane al pub, ma dopo una decina di metri i ragazzi si sono trasformati in spregiudicati aggressori, rubando al 30enne un Iphone e circa 150,00 euro.

A distanza di pochi minuti, la Polizia ha notato i quattro in via Balsamo e gli si sono accostati per un controllo di routine. I ragazzi  hanno iniziato così la loro fuga. Gli agenti sono riusciti a raggiungere e bloccare uno dei giovani.  La vittima ha riconosciuto il giovanissimo quale un elemento del “branco”.

Il quindicenne, già gravato da pregiudizi di polizia, risulta recluso presso il “Malaspina” mentre continuano le indagini per risalire agli altri componenti del gruppo criminale.

Parrocchie storiche di Palermo: la parrocchia di S. Giacomo la Marina

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di Giacomo Cangialosi

La chiesa durante i lavori di demolizione nel 1863

La chiesa durante i lavori di demolizione nel 1863

La chiesa si trovava nella piazza accanto alla chiesa di S. Maria La Nova. In origine pare che in questo stesso luogo vi fosse una moschea fuori le mura trasformata in chiesa dai normanni che la dedicarono all’apostolo Giacomo e venne detta del Borgo in quanto fuori le mura e poi “la Marina” perchè presso il mare.

Mongitore la dice fondata prima del 1169 anche se recentemente se ne è trovata menzione addirittura nel 1143. All’inizio la chiesa non fu parrocchia ma lo divenne quando nel 1301 vi venne traslato il titolo da quella di S. Andrea degli Amalfitani.

Il suo territorio abbracciava anche il Borgo di S. Lucia e il Castello a mare. Il primo parroco dopo la Riforma del 1600 fu don Gaspare Liccio. Il primo restauro avvenne nel 1655 in seguito al terremoto dell’anno precedente e interessò solo il presbiterio; nel 1715, poichè ridotta in precarie condizioni, il parroco don Francesco Mira iniziò i lavori di restauro e trasferì momentaneamente la sede nella chiesa di S. Sebastiano, i lavori però iniziarono dopo alcuni anni e successivamente alla nomina a parroco di don Angelo Serio che finalmente nel 1723 ritrasferì la parrocchia a S. Giacomo.

Nel 1860, in seguito ai bombardamenti borbonici, la chiesa venne molto danneggiata e se ne decretò la demolizione anche per aprire una nuova strada che collegasse piazza Meli a S. Sebastiano, pertanto subito dopo venne distrutta. Il titolo parrocchiale venne trasferito nel 1863 e fino al 1874 a S. Sebastiano, poi a S. Zita fino al 1943, con una parentesi a Valverde tra il 1925 e il 1936, quindi nella chiesa della Madonna del Lume ai Cassari fino al 1955, poi a S. Maria la Nova e ancora alla Madonna del Lume per ritornare nuovamente a S. Maria la Nova.

La chiesa, a tre navate, aveva il presbiterio rivolto ad oriente. La facciata presentava tre porte ogivali e una quarta nella navata di destra. Sulla porta principale vi era, come sempre, una statua in stucco (1634) dell’Immacolata con S. Giacomo genuflesso ai piedi. Sotto di essa lo stemma di Pio VI ricordava l’aggregazione di questa chiesa alla Basilica Lateranense nel 1798. In alto sulla facciata due orologi e le logge per le campane con monofore.

Le navate erano sostenute da pilastri che avevano sostituito colonne intarsiate di marmi. Ai lati della porta principale due fonti per l’acqua benedetta uno del 1460 fatto realizzare da Bartolomeo della Chiana e l’altro del 1561 da Pietro di Morano. Il presbiterio, dedicato alla SS. Eucarestia e con altare voluto dal parroco don Filippo Sidoti nel 1698, era affrescato nella volta da Gaspare Serenario con le immagini di S. Girolamo e S. Ippolito e in alto con il “Trionfo dell’Eucaristia” fatti realizzare dal parroco Serio (seppellito sotto l’altare) che vi pose anche l’iscrizione nel 1729, ai due lati due quadri di Olivio Sozzi con “L’adorazione dei Magi” e “La purificazione di Maria”; sopra l’altare era venerata una tavola attribuita ad Alberto Durer raffigurante la Madonna con il Bambino; alle pareti laterali gli stalli per l’ufficiatura.

Nella navata di sinistra vi erano una porta (dalla quale si accedeva alla canonica e al cimitero parrocchiale) e a seguire tre cappelle: nella prima vi era il quadro di Olivio Sozzi con la “Madonna della Grazia e i Ss. Francesco di Sales, S. Filippo Neri e S. Carlo Borromeo con il ritratto del parroco Serio”, quindi la cappella di S. Onofrio con il quadro eponimo del 1620 dello Zoppo di Gangi, seguiva la cappella dedicata alla Pietà con quadro del Sozzi, la porta della sacrestia e infine contigua al presbiterio la cappella di S. Giacomo, con il quadro del Sozzi (anche se taluni autori invertono l’ordine di queste due ultime cappelle). Nella navata di destra vi erano una porta che dava all’esterno sopra il quale si trovava l’affresco dimezzato con S. Cristoforo (tagliato per l’apertura della porta), forse opera di V. Di Pavia, e sotto il primo arco della navata il fonte battesimale del 1574. Seguivano le cappelle dell’Immacolata e dei Sett’Angeli con l’affresco eponimo, quindi quella di “S. Pietro che comunica S. Rosalia” con quadro del Sozzi e in ultimo la cappella con “La Sacra famiglia” opera anche questa del Sozzi.

Contigua al presbiterio la cappella che fu della nazione lombarda con pregevoli dipinti di Vincenzo di Pavia e sull’altare “La Flagellazione” dello stesso autore entro una mirabile edicola lignea fortunatamente salvatasi dalla distruzione. Sopra la porta principale la cantoria con un organo a canne di Raffaele La Valle. Nella chiesa vi erano inoltre molte lapidi sepolcrali e tombe delle quali la più notevole era quella cinquecentesca di Girolamo Fuxo.

La sacrestia era affrescata da Olivio Sozzi e vi si trovava una tavola di Paolo Romano raffigurante la “Madonna delle Grazia con il Bambino” e una “Crocifissione” dello Zoppo di Gangi.
Delle opere d’arte presenti nella parrocchia di S. Giacomo la Marina gli affreschi del Serenario e del Sozzi andarono ovviamente perduti con la demolizione; le tavole della cappella dei Lombardi e la bella Flagellazione con l’edicola originaria sono nei depositi di Palazzo Abatellis insieme al sarcofago cinquecentesco del Fuxo; il S. Onofrio dello Zoppo di Gangi si trova al Museo Diocesano; il fonte battesimale è ritornato a S. Maria la Nova dopo il furto e il fortunoso ritrovamento; la finestra monofora del campanile si trova nel chiostro del Museo Salinas.

La chiesa durante i lavori di demolizione nel 1863 Presentazione al tempio di V. di Pavia Flagellazione di Vincenzo di Pavia Fonte battesimale

Parrocchie storiche di Palermo: la parrocchia di S. Margherita alla Conceria

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di Giacomo Cangialosi 

Parrocchia di S. MargheritaLa fondazione è anteriore al 1264 in quanto in un testamento di quell’anno viene menzionata per un lascito a questa chiesa che si trovava in piazza Nuova alla Conceria ed era parrocchia di questo rione.

Il primo parroco dopo la Riforma fu don Pietro Imbrunetta. Nel 1654 venne rifatta la volta della chiesa, nel 1695 venne restaurata dopo il terremoto del 1693 (durante i restauri la parrocchia venne momentaneamente trasferita nell’antica chiesa di S. Rocco che si trovava in via Maqueda ad angolo con l’attuale via Venezia) e nel 1767, scrive il Villabianca, il parroco don Simone Buscemi ricostruì la chiesa trasferendola più avanti (forse venne solo prolungata verso la facciata per realizzare un luogo idoneo per il fonte battesimale).

Nel 1850 circa il parroco don Giambattista Scasso circondò la piazzetta antistante (già utilizzata come cimitero parrocchiale) con una inferriata e fece sistemare nella facciata un orologio a campana costruito però dal suo predecessore don Giovanni Daidone che aveva fatto realizzare pure gli stalli del presbiterio nel 1826. Nel 1898, in seguito al piano di risanamento della Conceria, il titolo parrocchiale venne trasferito a S. Ninfa dei Crociferi e poco dopo, nonostante l’avversione del cardinale Michelangelo Celesia, la chiesa venne demolita, poi nel 1945 il titolo di S. Margherita venne definitivamente traslato nella chiesa di Nostra Signora del Sacro Cuore in via Marabitti dove si trova tuttora.

La chiesa presentava una facciata molto semplice con bel portale e cinque finestre delle quali la centraletimbro parrocchia tampognata, in alto l’orologio suddescritto e sul portone la statua dell’Immacolata; un’altra porta sulla parete di destra dava accesso su via Formari.

L’interno, a navata unica, aveva sei altari oltre il presbiterio. Nel lato sinistro all’ingresso il fonte battesimale del 1601 e sul muro vicino un affresco con “Il Battesimo di Gesù”. Il primo altare era dedicato ai “Sette Dolori di Maria” con la statua di Giuseppe Melante, seguiva l’altare con “La Deposizione” di Mariano Paganello (copia da Vincenzo di Pavia) e quindi l’altare di S. Margherita con la tela eponima di scuola romana. Il presbiterio presentava una bella custodia lignea con statua della “Vergine Immacolata” del XVII secolo e un “Crocifisso” di Antonio Rallo. Ai lati vi erano i letterini per l’organo e sotto gli stalli per l’ufficiatura. Nel lato destro: nel primo altare vi era una tela di Gaspare Serenario con “S. Filippo Benizio e S. Giuliana”, seguiva l’altare dedicato alla “Fuga in Egitto” con il quadro di Vincenzo Bongiovanni e quindi l’altare del “Crocifisso” con statua di Giuseppe Melante, sotto questo, in una scarabattola di tartaruga, un venerato “Ecce Homo” ligneo (probabilmente lo stesso che oggi si trova presso la scalinata della parrocchia di S. Antonio Abate).

Con il trasferimento della parrocchia nella chiesa di S. Ninfa dei Crociferi molti arredi vi vennero trasferiti: tra questi gli stalli del coro ancora in loco, il Crocifisso di Antonio Rallo posto sull’altare maggiore e la Vergine dei Sette dolori del Melante nel transetto di destra. Il quadro della Deposizione è esposto attualmente nel salone Lavitrano dell’Episcopio mentre il fonte battesimale è stato trasferito nella parrocchia di S. Giovanni apostolo al Cep. Il grande Crocifisso di Melante, transitato per il Seminario arcivescovile, non è attualmente reperibile. Recentemente è stata restaurata la supposta tela di S. Margherita e sarà esposta nelle sale del Museo Diocesano.

Crocifisso del Rallo a S.Ninfa Stalli del coro oggi a S.Ninfa Discesa dalla Croce Parrocchia di S. Margherita Battistero di S. Margherita oggi nella parrocchia del CEP Crocifisso del Melante timbro della parrocchia

Parrocchie storiche di Palermo: la parrocchia di S. Nicolò dei Greci

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di Giacomo Cangialosi 

Tipica Iconostasi di chiesa di rito greco

Tipica Iconostasi di chiesa di rito greco

Questa chiesa venne originariamente fondata sotto il titolo di S. Sofia dal capitano albanese Matteo Litardo che venne poi sepolto all’interno di essa. Era già esistente nel 1540 in quanto, dice Valerio Rosso, vi si celebrava secondo la liturgia bizantina.

Il canonico Mongitore afferma che la sua fondazione sia stata dopo il 1534 quando gli albanesi, fuggiti dal loro paese per l’invasione ottomana, giunsero in Sicilia e nell’Italia meridionale. Presso questa chiesa ve ne era un’altra, sempre di rito bizantino, dedicata a S. Nicolò che il 20 aprile 1554 divenne parrocchia per uso degli albanesi detti da noi greci.

Nel 1615 questa parrocchia venne trasferita nella vicina chiesa di S. Sofia che da allora ne assunse anche il nome. Non aveva un territorio parrocchiale ma amministrava i sacramenti a tutti gli abitanti di rito bizantino. Anche questa parrocchia nel 1600 rientrò nella riforma del Senato e il primo parroco fu don Germano vescovo di Amatunta in Cipro.

Attaccato alla chiesa vi era anche il Seminario di rito bizantino fondato nel 1734 dal padre Giorgio Guzzetta, della congregazione dell’Oratorio di S. Filippo Neri, che era di origine albanese. Sia la chiesa che il seminario si trovavano di fronte la porta meridionale del Monte dei Pegni di S. Rosalia e quindi dietro la chiesa di S. Zita. Durante i bombardamenti del 1943 la chiesa venne completamente distrutta e al suo posto oggi vi è un edificio scolastico, l’unica memoria della struttura resta nel toponimo: via Seminario Italo-Albanese. Il titolo parrocchiale venne trasferito nella chiesa della Martorana dove risiede ancora oggi e fa parte dell’Eparchia di Piana degli Albanesi.

La chiesa aveva l’altare rivolto ad oriente e due porte, una nella facciata e l’altra nella parete sinistra che guardava

Chiesa della Martorana attuale sede della parrocchia di S. Nicolò dei Greci

Chiesa della Martorana attuale sede della parrocchia di S. Nicolò dei Greci

il settentrione. Dietro l’abside, dalla parte esterna, era adornata da una croce di pietra dove vi era scritto “Jesus Christus vincit”. L’interno, a navata unica, aveva due altari posti nelle pareti laterali: a destra di S. Atanasio con quadro su tela e a sinistra di S. Nicolò di Mira con tavola dipinta. L’altare maggiore era separato dall’aula dall’iconostasi adornata da varie icone e in cima un Crocifisso dipinto su tavola con alle estremità gli evangelisti, sotto di esso La Vergine e S. Giovanni e gli Apostoli, vi erano poi varie icone con vari santi greci. Il pavimento era pieno di lapidi sepolcrali. Le icone che si trovavano nella chiesa e che si salvarono dalle bombe furono divise fra varie chiese dell’Eparchia.

P.S. Questa chiesa parrocchiale non aveva alcuna relazione con quella omonima le cui strutture incomplete della facciata si vedono ancora in via IV Aprile.

Il 2016 è l’anno internazionale dei legumi

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di Flavia Cascio

legumiIl 10 novembre 2015 la FAO, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’Agricoltura, dichiara il 2016 “anno internazionale dei legumi”: fagioli, piselli, fave, lenticchie saranno i principali protagonisti.

Che cosa sono i legumi? I legumi sono semi commestibili delle piante appartenenti alla famiglia delle leguminose, racchiusi in un baccello e possono essere consumati allo stato fresco, secco, surgelati e conservati: i legumi freschi sono semi immaturi e hanno un elevato contenuto d’acqua mentre quelli secchi sono un’ottima fonte di proteine.

Che ruolo hanno? In molte parti del mondo, i legumi sono parte della cultura alimentare nonché un ingrediente chiave di molti piatti nazionali: basti pensare ai falafel, al dahl di lenticchie, all’hummus di ceci, ai fagioli con chilli e al forno. Sono anche un’alternativa valida alle più costose proteine di origine animale e questo li rende ideali per migliorare le diete nelle parti più povere del mondo, infatti, ad esempio le proteine provenienti dal latte sono cinque volte più costose di quelle provenienti dai legumi. Poiché i legumi hanno una resa da due a tre volte più elevata in termini di prezzi rispetto ai cereali, offrono anche un grande potenziale per sollevare gli agricoltori dalla povertà rurale e la loro lavorazione fornisce quindi opportunità economiche.

Quali benefici apportano al nostro organismo? I legumi sono ricchi di proteine (il doppio di quelle presenti nel grano e tre volte di quelle del riso), di micronutrienti, aminoacidi e vitamine del gruppo B. Hanno un basso contenuto di grassi, contengono molta fibra solubile (che contribuisce al controllo dei livelli di glucosio e colesterolo nel sangue) e hanno un alto contenuto di ferro e zinco (che li rende un alimento importante per contrastare l’anemia).

Perché è importante consumarli almeno tre volte a settimana? Sono fondamentali nelle diete salutari per affrontare l’obesità e per prevenire e gestire malattie croniche come il diabete, i disturbi coronarici e il cancro e poiché non contengono glutine sono adatti anche per i pazienti celiaci.
Utile inoltre risulta l’associazione dei cereali o loro derivati (pane, pasta, riso, ecc.) con i semi delle leguminose: i due patrimoni proteici, entrambi incompleti, si integrano e si riequilibrano vicendevolmente e il valore proteico aumenta fino a diventare paragonabile a quello delle proteine animali.
Via libera quindi al consumo di pasta con fagioli, pasta con ceci, riso con piselli, e così via.


Parrocchia dei Ss. Silvestro e Giovanni Battista nel Castello a mare

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di Giacomo Cangialosi

Portale della chiesa con lapide delle 13 vittime del 1860 già rimontato nel Ritiro di Suor Vincenza

Portale della chiesa con lapide delle 13 vittime del 1860 già rimontato nel Ritiro di Suor Vincenza

Si ha notizia di questa chiesa fin dal 1445 anno in cui re Alfonso vi nominò il cappellano nella persona di fra Antonio Bonaccolto. La chiesa si trovava all’interno della fortezza ed era la parrocchia degli abitanti della stessa. Fino al 1580 il territorio ricadeva in quello di S. Giacomo la Marina ma, per volontà dell’arcivescovo don Cesare Marullo, venne eretta la parrocchia sotto il titolo di S. Silvestro e successivamente in quello dei Ss. Silvestro e Giovanni Battista.

Il primo parroco dopo la riforma fu don Giovanni Vitale. Il 19 agosto 1593, per lo scoppio della polveriera che causò anche la morte del poeta Antonio Veneziano, la chiesa subì gravi danni e venne ricostruita. All’interno di essa, il 13 aprile 1860, trascorsero l’ultima notte Nicolò Garzilli e altri 12 patrioti che vennero fucilati il giorno dopo (le 13 vittime che diedero il nome alla vicina piazza). Nel 1863 il titolo parrocchiale venne soppresso e mai più ricostituito mentre la chiesa venne demolita insieme a gran parte del castello nel 1922. In tale occasione il bel portale bugnato cinquecentesco venne rimontato nella facciata laterale del vicino Ritiro di Suor Vincenza ma dopo il bombardamento del 1943 i pezzi vennero dispersi tra le macerie, secondo alcuni invece sarebbe conservato, smontato, all’interno dello Spasimo.

La chiesa era a navata unica e si trovava all’interno del cortile maggiore del castello a mare, non godeva, per ovvi motivi, del diritto d’asilo per i rei. Aveva un unica porta laterale e cinque altari oltre quello maggiore che era in marmi e fregi dorati ed era dedicato alla SS. Eucaristia; nel presbiterio lateralmente vi erano gli stalli del coro per l’ufficiatura e sopra ai due lati le tele con “S. Michele arcangelo” e “S. Francesco”.

Sulla parete di fondo vi era la cantoria con l’organo e ancora sopra un piccolo palco per uso del castellano che vi accedeva dalle proprie stanze. Nella parete laterale di sinistra vi erano l’altare di S. Gaetano e quello del SS. Crocifisso con statua lignea. A destra il primo altare era dedicato a S. Silvestro con tela di Vito D’Anna e il successivo alla Madonna del Rosario con la tela eponima. Nella chiesa si trovava pure un quadro con l’immagine della “Madonna nera di Atocha” molto venerata a Madrid e la grande tela del “Battesimo di Cristo” del La Farina, nel pavimento vi erano poste molte lapidi sepolcrali dei castellani ivi sepolti e presso la porta d’ingresso è verosimile che vi fosse sistemato il fonte battesimale.

Sono rintracciabili ancora, oltre ai pezzi del portale bugnato allo Spasimo, anche l’altare maggiore, oggi nella parrocchia di S. Gaetano a Brancaccio, e la tela con “Il battesimo di Cristo”, oggi nel transetto destro della chiesa del SS. Salvatore in corso dei Mille.

Esterno della chiesa prima della demolizione Battesimo di Cristo di F. La Farina Interno della chiesa all'inizio demolizione Madonna nera di Atocha (Madrid) Portale della chiesa con lapide delle 13 vittime del 1860 già rimontato nel Ritiro di Suor Vincenza

Parrocchie storiche di Palermo: parrocchia di S. Giacomo dei militari

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di Giacomo Cangialosi

Cappella di S. Giovanni Nepomuceno

Cappella di S. Giovanni Nepomuceno

La parrocchia, che si trova all’interno del quartiere militare detto di S. Giacomo o degli Spagnoli, amministrava i sacramenti a tutti i residenti all’interno di detto quartiere militare (oggi caserma Carlo Alberto Dalla Chiesa).

La chiesa edificata nel 1482, anno di una grave pestilenza, era in origine dedicata a S. Sebastiano protettore dalla peste e per tale motivo vi terminava la processione annuale di questo Santo che iniziava dalla chiesa eponima presso la Cala. Nel 1505 venne affidata alla maestranza dei calzolai i quali nel 1546 vi edificarono una cappella dedicata ai loro protettori i Ss. Crispino e Crispiniano e tale era la devozione che la chiesa iniziò ad assumere il loro nome; nel 1620, però, completato l’Ospedale di S. Giacomo per la nazione spagnola, i calzolai la cedettero al rettore dell’ospedale e si trasferirono in quella di S. Leonardo De Indulciis presso quella di S. Michele Arcangelo all’Albergheria.

Da allora la chiesa prese il nome dell’apostolo Giacomo il Maggiore protettore della Spagna. Al 1720 risale la costruzione del fonte battesimale anche se ancora filiale della Cattedrale fino al 12 giugno 1778 data dell’erezione in parrocchia. Dopo l’Unità d’Italia venne deciso il trasferimento del titolo parrocchiale nella chiesa della Pinta, cosa mai attuata, e nel 1874 venne soppresso: la chiesa divenne autofficina per i mezzi militari e la struttura venne manomessa. Infine nel 1933 il titolo parrocchiale venne ripristinato nella chiesa di S. Isidoro Agricola annessa al Noviziato Teresiano in corso Pisani dove oggi ha sede. Nell’ultimo decennio la chiesa è stata sottoposta ad un integrale restauro che ha riportato la struttura alle condizioni ottocentesche con la riscoperta della cripta e di taluni affreschi.

La chiesa, con l’altare rivolto ad oriente, è a tre navate separate da colonne di pietra e tetto rifatto con travature lignee, nel pavimento erano varie lapidi sepolcrali oggi scomparse, sotto di esso le cripte riscoperte nell’ultimo restauro. Anche questa chiesa, come quella del Castello a Mare, non godeva di immunità ecclesiastica. Ha due porte, una sulla facciata principale con arco ogivale e con due finestre ai lati e l’altra nella navata di sinistra che da su un portico.

Nel 1809 era stata restaurata e abbellita con affreschi dei quali si vedono i resti. Nella navata sinistra vi è la cappella della Madonna del Rosario con quadro di Simone di Wobrek. In quella di destra è notevole la cappella di S. Giovanni Nepomuceno fondata nel 1727 dalla nazione tedesca, in essa vi era un pregevole altare in marmo con colonne e la statua eponima, anch’essa di marmo, e alle pareti affreschi con “Episodi della vita del Santo boemo”, nella cappella retrostante sono stati rinvenuti affreschi cinquecenteschi. Nello stesso lato l’altare dedicato ai Ss. Cosma e Damiano con un quadro caravaggesco. Nella chiesa è esposto oggi un altro simulacro marmoreo di S. Giovanni Nepomuceno (già alla Gancia) proveniente però dal monumento posto dinanzi al Castello a Mare. Oggi la chiesa è utilizzata per attività culturali e conferenze.

Alcune opere d’arte, dopo i recenti restauri, sono ritornate nella chiesa (Madonna del Rosario e Ss. Cosma e Damiano) dal Museo Diocesano dove erano state custodite; l’altare con colonne e bassorilievi in marmo e la statua di S. Giovanni Nepomuceno vennero trasferite dopo il 1870 nella chiesa del S. Sepolcro di Bagheria dove attualmente si trovano nella navata di destra.

Chiesa di S. Giacomo dei militari - facciata Cappella di S. Giovanni Nepomuceno Altare del Nepomuceno oggi a S. Sepolcro di Bagheria tela dei Ss. Cosma e Damiano resti di affresco Madonna del Rosario di Simone di Wobrek Interno della chiesa

Il Caravaggio rapito

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di Federico Mosso (tratto da Tagli.me)

Nella Roma di papa Paolo V corre l’anno del Signore 1606. C’è un uomo che s’aggira per le strade e i vicoli, vestito di un tabarro nero, e con un cappello dalle ampie falde, anch’esso nero, e pure è nero il cane che lo segue al fianco, Cornacchia.
I passanti che lo riconoscono cambiano lato, evitano di guardarlo negli occhi, tirano dritto.
Ha una brutta fama quel ceffo. Ha il sangue caldo, ha l’anima che avvampa con facilità, la mano scende troppo spesso ad impugnare la spada, e per futili motivi, per giunta. Arrogante, orgoglioso, turbolento, violento.
Ha sfrenati appetiti sessuali. E tanto altro ancora: biscazziere, rissoso, membro di gang teppistiche, tiratardi impenitente, frequentatore di bettole dai tavolacci lerci di vino scadente e brutta umanità lesa dal bicchiere, puttaniere, pappone, seduttore di mogli altrui, sfregiatore, picchiatore, attentatore di vite.
L’uomo è un combinaguai per natura.

Nella sua giovane vita, ha già cambiato più volte luogo di residenza, rincorso dalla legge e dagli sbirri, lasciando come ricordo di sè, diffamazioni, debiti, schiamazzi, occhi neri, sprangate, tagli e una volta anche un piatto di carciofi in faccia ad un cameriere.
Poco tempo prima ha dovuto darsela a gambe, diretto a Genova, per un soggiorno obbligato dalle circostanze – ovvero per far calmare le acque nell’Urbe, perché ha sfregiato con la lama la testa di un notaio romano, reo di consegnare al briccone, per dovere di funzionario, l’ordine del tribunale. Che c’era scritto? Robetta: si vietava alla canaglia di continuare, imperterrito, a stringere relazione di natura scandalosa con l’adultera Lena, consorte di altro rispettabile cornuto.
Cum magna sanguinis effusione, sangue a catinelle, dicono gli atti polizieschi, il farabutto ha aperto la zucca al povero ligio notaio.

Individuo burrascoso, non v’è dubbio, ma il facinoroso ha dalla sua parte una nutrita fazioni di bei nomi, vip, potenti, ricchi, protettori politici e porporati. L’irascibile si è guadagnato quelle influenti amicizie perché non è solo un bullo di strada, ma anche e soprattutto un genio del pennello, un famoso pittore alla moda, pioniere del barocco, artistar.
Il suo nome, immortale, è Michelangelo Merisi, ma lo chiamano Caravaggio, come il borgo bergamasco, perché quella è l’origine della sua famiglia.

Dipinge per committenti dai borselli pesanti tele di grandi dimensioni con soggetti religiosi, episodi di vita dei santi, martirii, estasi mistiche, sofferenze del Cristo, visioni bibliche dall’antico testamento, talvolta molto violente come nel Giuditta e Oloferne.
Non solo, realizza quadri con figure pagane; frivole ed ebbre come nel Bacco, icona di abbondanza ed eterna giovinezza, e dove ha inserito un autoritratto segreto all’interno della caraffa di vino; oppure cattura scene popolari, picaresche, come ne I bari, triangolo composto da un giovane pollo da spennare e due truffatori navigati, con estrema precisione di particolari e di descrizione psicologica.
Merisi rompe la tradizione accademica, di eredità rinascimentale e dominata dal classicismo, e compie la sua rivoluzione. Lo sfondo non è importante, piuttosto lo sono i personaggi. A lui interessa l’illuminazione, il gioco di luce ed ombra; nel ritrarre in vesti religiose o mitologiche i suoi modelli, piazza le lanterne nel suo studio in modo da lasciarli in parte coperti dall’oscurità.

È lo studio alla teatralità, vanno in scena su tele divenute palchi per recitazioni drammatiche, compassioni, sentimenti, malinconia, la realtà. La strada gli fornisce i modelli di cui ha bisogno, e sono uomini e donne del popolo se non proprio dei bassifondi, come nella Vocazione di San Matteo, che sembra essere ambientata in un’osteria seicentesca nella penombra squarciata dal fascio di luce sacra, che è divina, che è la vocazione, che è lo sguardo di Dio.
Sacro e profano, l’umanità che frequenta Caravaggio è la fonte d’ispirazione per la sua dedizione al realismo.
E quando si spinge troppo oltre, la sua opera fa grave scandalo, come per la Morte della Vergine, dove l’artista si prende la peccaminosa libertà di dipingere la Madonna con canoni completamente diversi rispetto al passato, immorali.
Si dice abbia tratto ispirazione dal cadavere di una prostituta annegata nel Tevere. Sacrilegio!
Quel ventre gonfio fa abbassare gli occhi dei pii committenti, i Carmelitani Scalzi, che non la vogliono più.
E poi quei piedi e quelle caviglie scoperte… bestemmia!
Non solennità religiosa, ma umanità, licenziosa e troppa per un soggetto religioso di quattro secoli orsono.

Adesso però, il nostro scalmanato la sta per combinare davvero grossa. Rione di Campo Marzio, 29 maggio 1606, sotto il palazzo dell’ambasciatore del Granducato di Toscana si disputa una partita di pallacorda.
È uno sport che scalda gli animi, le scommesse fanno girare nelle mani un bel po’ di monete.
Caravaggio è con la sua banda, son quattro prepotenti vestiti di nero dal coltello facile.
Vengono lì per chiudere i conti con la gang rivale capeggiata da Ranuccio Tommasoni da Terni, altro bellimbusto di pessima fama, ma di alto lignaggio, figlio di un colonnello legato all’aristocrazia filo-spagnola, fazione molto potente ora che il papa Paolo V è vicino alla corona di Spagna.

“Tu! Ranuccio! Figlio di cagna cortigiana!”

Gli sgherri delle due parti si insultano, invadono il campo, il gioco si ferma.
Il rumore di lame sguainate è sottile e stridulo.
Michelangelo e Ranuccio è da tempo che manifestano reciproco e sincero odio. Si pensa a questioni legati alla pallacorda, a debiti di gioco, ma no, le ragioni della disputa sono da ricercarsi nell’altro movente che fa scorrere il sangue: le donne.

Merisi ha sedotto la compagna di Tommasoni, Lavinia Giugoli, disonorandolo. Non basta. A far diventare una furia il rampollo teppista, è stata in realtà un’altra donna, Filide Melandroni, modella ed escort di lusso, che Caravaggio vorrebbe soffiargli dalla sua scuderia di puttane, per farne a sua volta una fonte di guadagno.
La lite è quindi cosa da magnaccia.
L’oggetto della contesa violenta è la sensuale Filide, che è anche musa per l’artista. Prima si è menzionato Giuditta e Oloferne: eccola, la squillo Filide, nei panni di Giuditta con scimitarra, vedova ebrea vendicatrice e cacciatrice di teste assire.

Duello, lama contro lama, en garde!
Stoccata di Ranuccio, Caravaggio ha la spalla bucata.
Ma il pittore contrattacca, furioso, la punta della sua spada affonda nel petto dell’avversario, che cade nella polvere. Michelangelo ha vinto la sfida, ma non è ancora soddisfatto.
Assesta al nemico in terra un ultimo colpo, un buffetto d’addio.
Gli tira un colpo sui testicoli, per umiliarne la virilità, gli infilza il pisello.
Ahia!

È un colpo bassissimo, mentre scrivo mi giro dall’altra parte per non guardare cosa mi sono immaginato. Nel vanto maschile del Ranuccio, un’arteria vitale è squarciata.
Il sangue scorre a litri via dal basso ventre, trascinando la vita del duellante in una pozza rosso scuro sul campo della pallacorda.
Ranuccio muore dissanguato, Caravaggio è un assassino.
Gli amici sgherri lo portano via, prima dell’arrivo delle alabarde poliziotte, e bussano al portone del palazzo dove risiede l’ambasciatore di Toscana Giovanni Niccolini, che è di proprietà del cardinale Francesco del Monte, l’eccellente protettore, e invocano rifugio.
Il portone si schiude, dentro, svelti!

La faccenda è gravissima. Scandalo a Roma, un altro per colpa di quel giovane scalmanato, ma questa volta è troppo seria la questione per chiudere un occhio.
Non è solo una rissa tra balordi, c’è politica.
Ranuccio Tommasoni è cadetto di potente famiglia filo-spagnola, Michelangelo è vicino all’ambasciatore del re di Francia, altra fazione rivale.
Il verdetto del processo per direttissima (e in contumacia) è senza appello e d’esempio.
Caravaggio latitante è condannato alla pena capitale per decapitazione, la sentenza può essere eseguita da chiunque lo riconosca per la strada.
I tanti nemici sogghignano e affilano i coltelli.
Ma l’artista killer è appoggiato dai principi Colonna, di origine bizantina e patrizi dalla notte dei tempi, casa aristocratica da sempre fornitrice di schiere di cardinali.
Filippo I Colonna lo nasconde nei suoi feudi laziali e depista gli inquirenti papalini.

La condanna per taglio della testa influenzerà l’ispirazione del pittore. Compaiono nelle sue tele diverse teste mozzate, sua morbosa ossessione, raffigurando spesso il suo stesso volto in quello dei giustiziati.
Si autoritrae decapitato.
In fuga, soggiorna a Napoli, nei Quartieri Spagnoli, dove dipinge moltissimo.
Dopo l’esperienza partenopea raggiunge Malta, sede dei Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, per farsi anche lui cavaliere. Ottenuto quel rango difatti, avrebbe immediatamente l’immunità, e sarebbero gran pernacchie all’indirizzo del papa e dei suoi guidici e sbirri.
Non ci riesce, mannaggia lui e il suo carattere infuocato: litiga con un altro cavaliere, lo sbattono al fresco. Evasione rocambolesca: Caravaggio scappa dal carcere di La Valletta.

“Michelangelo Merisi da Caravaggio è espulso con disonore dal nostro Sacro Ordine di San Giovanni, come membro fetido e putrido.”

Non c’è nulla da fare, quel genio ribelle è irrecuperabile ed è costretto ad una nuova fuga. La condizione di fuggitivo è sua caratteristica propria.
Lo vediamo adesso in Sicilia, dominata dalla corona di Filippo III di Spagna.
Si ferma a Siracusa e a Messina, e chissà anche a Palermo. Non si è certi della sua permanenza nella grande città del Mediterraneo, indizi recenti ci dicono che forse non ci passa.
Quindi è probabile che l’opera Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, per molto tempo ritenuta esser stata dipinta proprio a Palermo, sia in realtà stata realizzata precedentemente, su commissione a Roma anni prima, e poi successivamente collocata in Sicilia. Osservando difatti gli altri dipinti eseguiti nello stesso periodo a Messina e Siracusa, si notano evidenti differenze stilistiche e che fan pensare che la Natività sia collocabile nel periodo romano di Caravaggio.

Ma poco ci importa, su dove, come, per chi e quando è dipinta la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi. Quello che ci importa è la sua storia recente, sfortunata e misteriosa. Siamo di fronte ad un delitto.
Un rapimento, di certo. Forse addirittura un omicidio. Non lo sappiamo con sicurezza, mai difatti un cadavere è stato ritrovato. Questo racconto non ha il fine di raccontare il riassunto smozzicato dell’interessante ed agitata biografia di Michelangelo Merisi, che pure sarebbe bellissima.
Si vuole fare un balzo temporale di tre secoli e mezzo, per narrare di una vicenda criminale di una notte d’ottobre del 1969, accaduta nel centro storico di Palermo.

Piove. L’acqua scroscia nelle antiche strade della Kalsa, quartiere di origine araba, nel ‘600 cuore nobile dei signori della città, ma ora, nell’epoca da noi visitata, in rovina. Notte di solitudine e di pioggia, nella Kalsa.

Nell’Oratorio di San Lorenzo, le candele illuminano gli stucchi di Giacomo Serpotta, il più grande stuccatore d’Europa, Magister Stuccator, formatosi nella Roma barocca.
Tutt’attorno, bagliori fiochi estraggono dall’oscurità forme sinuose, allegorie, figure di gesso indurito, mani, volti, estasi che escono dall’ombra.
I puttini immacolati giocano, tra le storie dei Santi Lorenzo e Francesco e i panorami intravisti di nicchie profonde.
Le pareti sono vive, si muovono.
I personaggi escono dai muri. Appesa sopra l’altare, la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assi.
La luce giallognola dei lumi è poca, ma basta per ammirare, per capire la grandezza di chi ha dipinto.

È la rappresentazione di un presepio. Nessun lusso, non c’è ricchezza, la scena avviene in un’umile stalla. Una scena povera rivolta ai poveri. Al pittore il tempo non interessa, la nascita di Cristo, il divino che si fa carne, è ovunque, sempre.
Compaiono personaggi vissuti in epoche diverse, come Maria, un giovane San Giuseppe e il bambin Gesù assieme a San Lorenzo, a cui è dedicato l’oratorio, e a San Francesco d’Assisi, in onore dell’omonima Venerabile Compagnia, proprietaria dell’edificio.
Non c’è gioia, ma malinconia, sottilineata dai colori spenti e dalla luce; noi lo guardiamo ora a lume di candela ma è il quadro stesso che si mostra con quella lieve illuminazione. E forse è la Madonna che sa in cuor suo, quale sarà il destino del suo bimbo.
Tristezza, non è la celebrazione della nascita del Salvatore degli uomini, ma il presagio della sua morte. Dimensione temporale di 33 anni, oggi Cristo nasce, domani sarà crocefisso, è scritto in cielo. Gloria in excelsis Deo recita lo striscione portato dall’angelo volante, gloria a Dio nel più alto dei cieli.
Il presepe vivente, il presepe morente. Michelangelo Merisi da Caravaggio, genio ultraterreno e sregolatezza terrena, come da tradizione; mano peccatrice mossa da capacità divina, il grande peccatore baciato da Dio; il sacro dell’opera immortale e il profano di una vita carnale che arde a fiamme alte. Pensieri, forse esagerati, che si alzano dalla ragione. I pensieri sono interrotti.

Il flash di un lampo perfora la notte di Palermo, svela per una frazione di secondo tutto l’interno del’oratorio. Segue un rombo di tuono, che scuote le strade deserte. Le candele si spengono, ora tutto è buio.
Per un lungo minuto, l’unico rumore è la pioggia battente.
Poi, arriva un altro rumore. È il verso di un motore poco potente, mal carburato, che si avvicina, arrancando.
È una moto Ape, tutta sghangherata, vecchia, sporca, una caffettiera a tre ruote. A bordo, dentro la cabina chiusa, tre uomini stretti e schiacciati tra loro, procedono sferragliando lungo vie abbandonate, intralciate di immondizia e rottami, tra palazzi di un’aristocrazia estinta o in malora, con le assi alle finestre e i balconi marci sorretti da impalcature precarie.
Quello che un tempo era scintillante, ora è scrostato. È la testimonianza infelice di un tempo glorioso ormai tramontato. Il quartiere è fatiscente, decadente, sta crollando. Délabré.

L’Ape rottame viaggia insicura sobbalzando nelle pozzanghere di liquami e nei crateri mai riparati, il suo faro illumina male muri ammuffiti e vicoli fradici.
Non c’è altra luce, nessun lampione.
Da via del Parlamento, la carretta prende via Immacolatella, dove c’è l’oratorio di San Lorenzo, le cui mura custodiscono un tesoro.
Sono lì per rubarlo.
Per i ladri, entrare dentro l’oratorio, è uno scherzo. Basta spingere un poco una delle porte finestre, di legno guasto, infilare un piede di porco nella fessura tra le due ante, e sollevare la sbarra che le tiene unite.
La sbarra cade sul pavimento dell’oratorio facendo clang!
Quella è l’unico antifurto a protezione della Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Caravaggio. Una difesa ridicola, un invito ai predoni.
I tre ladri non sono però una banda di professionisti come ci si aspetterebbe per un furto di tale importanza. Sono tre balordi, rozzi, stupidi, ignoranti come capre, malviventi bifolchi, picciotti a basso costo e intelletto ancor più basso.

Accendono le torce elettriche, profanano il luogo sacro con i loro scarponi infangati e i loro passi da trogloditi. I volti dei puttini scolpiti sembra che cambino espressione, non sorridono più ma sono sbigottiti, spaventati.
I viddani sono di fronte all’altare, d’innanzi alla Natività.
Per un istante, ma solo uno, improvviso e che svanisce subito, i predatori rimangono intimoriti dalla bellezza dell’opera, bloccati.
Si riprendono immediatamente, l’unica cosa a cui credono veramente, sono i piccioli, i soldi.
La dimensione del dipinto è grande, tre metri per due.
Uno dei viddani si arrampica goffo sulla parete, estrae dalla tasca il serramanico, con un clik spunta la lama.
Clik, anche gli altri due compari tirano fuori i coltelli, questa volta non da usare sulla carne di altri cristiani ma per sfregiare l’Arte.
Quei buzzurri hanno le mani adatte a zappare o a strangolare – non di certo a toccare il sublime.
Sacrilegio, il bello è stuprato dalla bestia.
Le loro mani oltraggiano.
Le loro mani sporcano.
Le loro mani disonorano.

Maledetti, ma che stanno facendo? Non così per Dio! Animali maldestri! La rovinate così! Le lame penetrano l’estremità della tela, per staccarla dalla cornice.
La tagliano via, per rapire il Caravaggio.
Ma è un lavoraccio dozzinale, incerto, fatto in fretta e senza alcun riguardo.
Un lavoro da pecorari. I coltelli rovinano il capolavoro, per sempre.
Fuori dall’oratorio, il cielo è tuoni e fulmini. Arrotolano il bottino, come se fosse un tappeto.
Quelli lì son buoni a rubare galline, non pezzi da museo. Cani che non siete altro!

I balordi telano con la tela, e un puttino alla parete piange. Uscendo in strada, la pioggia è diventata furioso acquazzone, le gocce cadono sulle teste dei ladri e sul tesoro rubato, che viene gettato nel cassone.
L’acqua bagna il Caravaggio, e non gli fa bene.
La moto Ape, adeguato destriero per quegli Arsenio Lupin in versione stracciona, svicola nei meandri della vecchia Palermo. Il borbottio del motore si allontana sotto il temporale.
I miserabili l’han combinata grossa, hanno rapito Caravaggio.

Incredibilmente, solo il pomeriggio di sabato 18 ottobre 1969 viene scoperto il furto dalle sorelle Gelfo, le custodi dell’oratorio. Il furto è avvenuto la notte prima, e al mattino nessuno ci ha fatto caso.
Maria Gelfo, come tutti i sabati, va all’oratorio per fare le pulizie e prepararlo per la messa del giorno successivo. Già: quel luogo è aperto ai fedeli e ai visitatori solo alla domenica, per la funzione religiosa.
La donna guarda l’altare maggiore, è spoglio, le cade la scopa di mano, si mette le mani davanti alla bocca, si fa il segno della croce.

“Gesù!”

La denuncia viene fatta la sera di sabato, da don Benedetto Rocco, che ha la responsabilità ecclesiastica dell’oratorio. In questura gli uffici sono semideserti, è fine settimana.
La polizia non sa nemmeno dove cominciare le indagini.
Il questore Zamparelli, messo sull’attenti dal ministro dell’Interno Franco Restivo, anch’egli palermitano, ammette il brancolare nel buio.

La Palermo colta e per bene si mette le mani nei capelli. Ma come è diamine è possibile avere in casa propria una tale opera di importanza mondiale e lasciarsela soffiare da sotto il naso con una tale facilità e negligenza? Nemmeno una catena con lucchetto alle finestre… Nulla, così, con superficialità, menefreghismo, avarizia. Il prefetto Giovanni Ravalli ci va giù severo: “La responsabilità del furto è duplice, dell’autorità ecclesiastica, che aveva in custodia il dipinto, e della sovrintendenza alle Belli Arti.
Per quanto riguarda il clero, quando esso possiede opere d’arte, è indispensabile che ne affidi la custodia allo Stato, se non riesce a garantirla.
Per quanto riguarda, invece, la sovrintendenza alle Belle Arti, risulta che mai abbia sollecitato od imposto alle autorità ecclesiastiche l’adozione di particolari misure di sicurezza per la custodia delle opere d’arte.
In specie per il dipinto del Caravaggio, la sovrintendenza non ha mai ritenuto di interessare la questura per la sorveglianza.”

Insomma, a Palermo c’era un Caravaggio, e ora non c’è più. Pochi ne sapevano l’esistenza, e i pochi non hanno fatto nulla per proteggerlo. Nel frattempo, in una cantina in un’altra zona della città …

“Che avete combinato, teste di minchia?”

Il committente del crimine è in ginocchio davanti alla tela srotolata sul pavimento di terra nuda.
È viola di rabbia, gli tremano le mani.
Scoppia in lacrime.
Alle sue spalle, i due ladroni si guardano, non capiscono che cos’è che non vada bene. Sono scimuniti.

Il mandante non la vuole più, così ridotta, spiegazzata, forata, tagliata storta, fradicia, con l’acqua della pioggia che ha agito sui personaggi della Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi come se fosse acido, sciogliendo volti e contorni.
Un disastro.
Il Caravaggio rapito passa in altre mani, e sono mani potenti e sporche di sangue.
Il sequestrato è cosa di mafia.

Ma dov’è finito? Gli hanno dato il colpo di grazia con il fuoco oppure soppravvive in qualche buco o cassa, malridotto ma ancora in vita?
Col titolo di “Pratica 799” troviamo un faldone: “Pratica 799” è l’intestazione delle indagini di ricerca.
La Pratica 799 contiene anni di caccia al tesoro, dichiarazioni di pentiti, soffiate, indiscrezioni, tesi, testimonianze, mitologia. È un giallo senza la parola fine.
Forse i ladri non hanno agito su commissione come quanto ricostruito con un po’ di fantasia nelle righe precedenti, con il mandante in lacrime sulla tela rovinata.
È possibile che i balordi abbiano deciso il colpaccio da soli, dopo aver visto una puntata della trasmissione RAI “I tesori nascosti d’Italia”, dedicata proprio all’opera del Caravaggio semi-dimenticata in un angolo dismesso della città.
Sono in un bar a vedere il televisore in bianco e nero, a fumare e a bere liquori.
Hanno l’illuminazione. Quel quadro è di uno famoso, deve valere un sacco di quattrini.
Prenderlo sarà un gioco da ragazzi.

A sottolineare l’improvvisazione cretina della banda di sgraffignatori da strada c’è la testimonianza di un ex-latitante, che all’epoca del crimine si era nascosto nell’appartamento di uno dei ladri.
Ai carabinieri che lo interrogano anni dopo, dice: “Il Caravaggio me lo ricordo bene, ci ho pure passeggiato sopra, visto che lo avevano srotolato nella stanza dove era sistemata la mia brandina. Ricordo che era rovinato in uno degli angoli, lo hanno strappato leggermente tirandolo fuori dall’ascensore.”

“Ci ho pure passeggiato sopra” . Incredibile, uno zoticone ha fatto due passi sopra la preziosissima Natività, sulle sue figure, magari per andare al cesso. Assurdo, un Caravaggio come scendiletto…

Nel 1969, all’epoca del ratto della Natività, nel quartiere comanda Giuseppe “Pippo” Calò, uno dei nomi più importanti nelle vicende di mafia. Il mandamento di Porta Nuova è feudo suo.
Nella Kalsa, territorio del boss, non si muove foglia che Don Pippo non voglia.
Di sicuro, anche Calò, viene informato sulla scellerata vicenda dell’Oratorio di San Lorenzo.

I tentativi di vendita sono vari. Ma spacciare un Caravaggio non è la stessa cosa che vendere un’auto rubata. Non è roba da ricettatori di bassifondi.
Servono contatti internazionali, esperti d’arte, mercanti senza scrupoli.
E poi, a quale prezzo? Oggi qualcosa come 30-40 milioni di euro, in teoria. Ma che senso avrebbe?
Un ipotetico compratore dovrebbe occultarlo in un suo bunker privato, e goderne in solitaria: mica potrebbe vantarsene in giro, logico. Il Caravaggio diverrebbe un feticcio per potenti egoisti, un perverso capriccio per masturbare gli occhi.
Non lo si può esporre in salotto, è godimento esclusivo.

Però le vie dell’eccentricità sono infinite, qualche malvagio miliardario lo si può sempre trovare, e non solo nei film. Ad ogni modo sembra che gli sforzi mafiosi nel piazzare il dipinto non vadano a buon fine.
L’eccellente sequestrato che scotta rimane sull’isola. Le piste sono tante, ma trattandosi di un mistero irrisolto, non si può sapere quale sia verità e quale sia favola.

All’interno della famiglia criminale di Calò c’è un luogotenente di spicco, si chiama Gerlando “U Paccarè” Alberti, e a lui viene affidata la custodia del Caravaggio.
La tela viene inclusa nella riserva aurea del clan, insieme a chili di stupefacenti e mazzette di dollari alte così.
Un infiltrato, collaboratore del capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, viene in contatto con U Paccarè, che nel 1979 è un narcotrafficante di alto livello.
All’infiltrato viene offerto l’acquisto di un’opera d’arte.
Non si saprà mai se fosse la Natività: pochi giorni dopo difatti, Boris Giuliano viene ammazzato con sette colpi di pistola in un bar. A sparargli alla schiena, Leoluca “Don Luchino” Bagarella, cognato di Totò Riina, superkiller dei corleonesi e stragista.

L’anno successivo, secondo altre indiscrezioni mai verificate, ci sarebbe stato un affare con i cugini d’America. Assieme alla vendita ai clan nordamericani di una partita di 200 chili di morfina-base (ingrediente fondamentale per l’eroina) ci sarebbe stato il dipinto.
La trattativa da parte siciliana è condotta da “Mister G”.
Mister G altri non è che Gerlando Alberti, mercante di coca ed ero a Porta Nuova.
Caravaggio emigra nel Nuovo Mondo, magari finito alla parete di qualche paisà del New Jersey?

In realtà, nemmeno questo nuovo tentativo di liberarsi dell’opera sarebbe andato a buon fine. In questa vicenda in cui abbiamo pochissime certezze, sappiamo però che effettivamente fu Gerlando Alberti a tenere per tanti anni il quadro.
Suo nipote, Vincenzo La Piana, collaboratore di giustizia, indica il luogo di campagna dove è seppellito in una cassa di ferro, assieme a cinque chili di cocaina e diversi milioni di dollari.
Ma quando vanno a scavare, i carabinieri non trovano più la cassa. Il clan ha spostato il suo gruzzolo.

Il Caravaggio rapito non si trova. Nel 1980 entra in scena il giornalista e scrittore Peter Watson, intellettuale impiccione che vuole scrivere un libro sulla vicenda, e che avrà il titolo di The Caravaggio Conspiracy.
È aiutato da Scotland Yard, che lo istruisce per camuffarsi da ricco e spregiudicato collezionista britannico, Mister John Blake, danaruto e impallinato di pittura seicentesca italiana.
Lo aiuta anche un italiano, Rodolfo Siviero, “lo 007 dell’arte”, agente segreto specializzato nel recupero di opere rubate, che ha dedicato tutta la vita nel proteggere il nostro patrimonio.
Siviero suggerisce all’inglese il nome di un antiquario napoletano, che a sua volta mette in contatto lo scrittore con due individui.
Uno dei due è un siciliano pregiudicato e si trova in confino obbligato a Laviano, in provincia di Salerno, in Irpinia.
Viene fissato un appuntamento per il giorno del 24 novembre del 1980, per mostrare a Mister Blake l’opera. Ma la sera del 23 novembre, la terra d’Irpina trema. La scossa è violentissima, i borghi si sbriciolano, morte, macerie, scandalosi ritardi nei soccorsi e poi tanti anni di luride speculazioni avvoltoie.
Laviano è uno dei comuni più colpiti.
Il giornalista inglese riuscirà a raggiungere il paese devastato solo una settimana più tardi.
Ma non c’è più nulla, solo rovine. Anche il Caravaggio rapito potrebbe essere una vittima del terremoto, seppellito laggiù, perso per sempre.

In parallelo alle ricerche, Cosa Nostra compie la sua tragica epopea, con le belve di Corleone come attori principali. Mattanze, racket, potere, fiumi di denaro, cemento illecito, collusioni con la politica, assalti allo Stato.
Nell’autunno del 1991, lo stato maggiore della criminalità siciliana, guidato da Riina e Provenzano, opta per una nuova strategia, rivelatasi poi negli anni fatale per tutta la Cupola corleonese.
I boss scelgono il terrorismo.
Vogliono uno scontro diretto contro le istituzioni della Repubblica.
Guerra.
Gli attacchi sono tremendi.
Bombe a Capaci e in via D’Amelio: la mafia osa l’inosabile, delirio di onnipotenza, vuole mostrarsi più forte dell’Italia, fa strage di giudici e poliziotti, pretende che lo Stato riconosca l’autorità del potere parallelo malavitoso, sedendosi con esso al tavolo di un’indicibile trattativa.
Ammazzare i due giudici, famosi e storici nemici in prima fila a combattere quell’esercito di criminali, non è sufficiente.

Colpiscono il nostro patrimonio, aggrediscono il bello, è il terrore dei bifolchi malvagi contro il sacro, che è l’Arte. La notte del 27 maggio 1997 un’autobomba scoppia a Firenze in via dei Georgofili, presso la Galleria degli Uffizi.
Altri scoppi avvengono due mesi dopo contro il Padiglione d’arte contemporanea di Milano e le chiese romane di San Giorgio in Velabro e di San Giovanni in Laterano.
Dinamite contro gioielli. Un giudice si sostituisce; un capolavoro è perso per sempre. Lo volete capire a Roma o no?
A distanza di un quarto di secolo dal furto della Natività i picciotti tornano a stuprare la cultura italiana. È in atto un ricatto terrorista.

In questa strategia criminale comparirebbe a margine anche la faccenda del Caravaggio rapito. Giovanni Brusca, “lo scannacristiani”, macchina di morte responsabile di dozzine di omicidi (tra i 100 e i 200 ammazzati), dopo che viene acciuffato e a seguito del suo pentimento dichiara ai giudici che lo interrogano che il quadro rubato fu offerto allo Stato per alleggerire le condizioni del carcere duro, il 41bis.
Offerta rifiutata da uno Stato che ora si mostra molto determinato a chiudere la partita con i corleonesi.

Altri pentiti parlano, forniscono altre versioni. Suggestiva e cinematografica è la possibilità che la Natività sia usata nei summit di mafia come stendardo di potere.
Povero Caravaggio, ridotto ad un drappo di ostentazione, messo in un angolo di una stalla di una masseria, come un re in catene, mentre grassi banditi trattano di affari sporchi e cospirano.

Durante il processo del ’96 al senatore Giulio Andreotti, Francesco Marino Mannoia, detto “Mozzarella”, esperto in raffinazione di eroina e narcotrafficante, dice di essere stato lui l’autore materiale del furto dall’Oratorio. Confessa di aver rovinato la tela irrimediabilmente quella notte del 1969.
Caravaggio sbriciolato.
Ma è un equivoco, Mozzarella si ricorda male e non è di certo un critico d’arte.
L’opera che lui distrugge è un’altra, dipinta da Vincenzo degli Azani, noto anche come Vincenzo da Pavia, e trafugata dalla chiesa dei Santissimi Quaranta Martiri dei Pisani alla Guilla, e non dall’Oratorio di San Lorenzo.
Iconografia simile, sempre di Natività si tratta, ma tre metri più grande e cosa più importante, non si tratta di un Caravaggio.
Mozzarella è smentito.

L’ultimo capitolo a questa storia viene aggiunto dalle dichiarazioni del sicario Gaspare “u Tignusu” Spatuzza che in tribunale, nel 2009, afferma che il Caravaggio rapito è stato affidato al clan dei Pullarà. Gente indegna a custodire un tal tesoro.
La nascondono in una stalla di campagna.
Tra i topi e i maiali.
Pensate, un Caravaggio tra topi e maiali, che sgranocchiano la tela.
Un capolavoro ridotto a cracker per porci e ratti.
I miseri resti della Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi vengono dati alle fiamme. Il cadavere del sequestrato brucia, pezzi di cenere volano in aria e si dissolvono per sempre nella provincia di Palermo.

Se le cose sono andate davvero in questo modo, beh, c’è da incazzarsi a morte. Distruggere, anzi uccidere in modo così volgare e barbaro un’opera che sarebbe dovuta appartenere a tutti, è un crimine odioso.
Chi uccide un’opera d’arte colpisce l’intera collettività, compie strage di ciò che è bello, che è eterno, dà la morte a ciò che doveva essere immortale, sfregiando un pezzo del nostro patrimonio artistico, il bene più prezioso che l’Italia possiede.
Chi scrive è sempre stato distante dagli umori popolari vogliosi di gogne e forche per i fatti di cronaca nera più eclatanti; in questo caso invece agli autori dello scempio verrebbe voglia di imbarcarli su un viaggio aereo di sola andata al largo delle coste mediterranee, aprire il portello, e gettarli ai pesci.
Ma i pentiti di mafia non sempre dicono la verità, spesso mentono: come ci si può fidare ciecamente della parola di briganti, peraltro pronti a vuotare il sacco su qualunque cosa – dal loro punto di vista – un PM sia ansioso di ascoltare?
Soppravvive la speranza.
Speriamo allora che il Caravaggio rapito sia ancora recluso, sotterrato in una cassa del tesoro dei pirati, o occultato in un muro di un vecchio rudere, o sulla parete di una stanza-caveau di qualche vecchio bastardo.
Meglio pensarlo prigioniero piuttosto che distrutto per sempre.

Federico Mosso

Parrocchia di Maria SS. di Monserrato in S. Lucia al Borgo

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di Giacomo Cangialosi 

facciata

facciata

L’originaria chiesa parrocchiale del Borgo Vecchio fu in origine quella dedicata alla Madonna di Monserrato e oggi utilizzata dal Collegio di Maria al Borgo. Fondata nel 1571, divenne parrocchia nel 1600 in seguito alla Riforma, primo parroco fu don Vincenzo Buitta; prima di questa data dipendeva dalla parrocchia di S. Giacomo la Marina.

La chiesa di S. Lucia, invece, vantava origini medioevali anche se venne quasi del tutto ricostruita per volere del vicerè Maqueda nel 1600. All’inizio era stata abitata dai padri Trinitari che l’abbandonarono prima del 1597 per trasferirsi nella chiesa di S. Demetrio nel piano del Palazzo per cui fu ceduta ai padri Minori Conventuali Riformati che vi restarono fino al 1775 anno in cui vennero aboliti tutti i piccoli conventi. Nell’anno 1776, essendo parroco don Giovanni Pizzi, la parrocchia di Maria SS. di Monserrato venne trasferita in questa di S. Lucia e subito venne restaurata dall’architetto del Senato Nicolò Palma che curò la ridefinizione della facciata e la sistemazione dell’interno per adattarla al nuovo uso liturgico, verosimilmente in tale occasione venne creato il vano per il battistero.

Nel 1834 la chiesa venne consacrata dall’arcivescovo di Palermo Cardinale don Gaetano Trigona e Parisi, essendo parroco don Conigliaro. Nel 1866 il parroco don Girolamo Sarmiento acquistò due altari monumentali provenienti da due chiese di conventi soppressi: quello del Crocifisso dalla chiesa dei Teresiani in piazza Indipendenza e quello di S. Lucia (dedicato nel luogo originario a S. Francesco di Paola) dalla chiesa di S. Maria della Vittoria in corso Calatafimi dei Minimi di S. Francesco di Paola. Poco prima della seconda guerra mondiale, per esigenze portuali, si decise di demolire la chiesa ma vi furono notevoli controversie per cui tutto venne bloccato. Durante i bombardamenti una bomba pose fine alla disputa in quanto centrò la chiesa semidistruggendola. La parrocchia pertanto venne trasferita nella chiesa dei “Sette Dolori di Maria” alle Croci dove si trova attualmente.

La chiesa aveva l’altare rivolto ad oriente e la facciata, scandita da quattro paraste con capitelli ionici, era preceduta da un recinto. Aveva tre porte, su quella centrale una grande aquila senatoriale in marmo e in alto una nicchia con la statua dell’Immacolata, ai lati, in corrispondenza delle paraste, quattro piccole piramidi di pietra. L’interno era a croce greca con tre cappelle absidate e 16 colonne di marmo di Billiemi con capitelli ionici che reggevano la cupola, le volte erano decorate con stucchi e affreschi a rabeschi. A sinistra della porta si trovava il vano per il fonte battesimale realizzato nel 1776. La cappella di sinistra era adornata dal sontuoso altare barocco con paliotto in marmi mischi (raffiguranti episodi della vita di S. Francesco di Paola) e nicchia con 4 colonne tortili di marmo rosso con la statua di S. Lucia opera di Rosario Bagnasco. La cappella di destra era dedicata al SS. Crocifisso la cui statua, in cartapesta con braccia mobili, era accolta nel fastoso altare in marmi mischi e tramischi con i simboli della Passione; in un angolo di questa cappella era venerata la statua lignea della Madonna di Monserrato. L’elegante altare maggiore cinquecentesco in marmo bianco aveva dei bassorilievi con episodi biblici ed era separato dall’aula da una bella balaustra marmorea.

Nella chiesa era altresì venerata la statua dell’Addolorata, opera attribuita allo stesso Rosario Bagnasco, che, insieme al Crocifisso deposto dalla croce, veniva portata in processione il Venerdì Santo. La chiesa possedeva anche un Cristo Risorto di Girolamo Bagnasco.

Dopo la distruzione della chiesa i tre altari vennero rimontati nella nuova chiesa di S. Luigi Gonzaga in via Gregorio Ugdulena. Le statue e gli arredi, compreso il fonte battesimale, trovarono accoglienza nella chiesa delle Croci dove ancora si trovano e dove venne trasferito anche l’archivio parrocchiale.

Un aneddoto narra che il 22 gennaio 1615 un fraticello conventuale zoppo trovò, mentre zappava l’orto del convento annesso alla chiesa di S. Lucia, una cassa con dentro un teschio ma credendolo di origine saracena pensò di allontanarlo dal luogo sacro; all’improvviso, però, guarì e molti altri sperimentarono miracoli di guarigione. Attaccato al teschio vi era un cartiglio che nessuno sapeva decifrare per cui ci si rivolse all’Inquisitore Roxas e nello stesso giorno l’abate di S. Spirito capì la provenienza in quanto si accorse che lo scritto tradotto significava “madre della Madre di Dio”: cioè S. Anna. A questo punto avvisò Giovanni III Ventimiglia e la sacra reliquia venne riconsegnata alla terra di Castelbuono da dove era stata trafugata nel 1602 da fra’ Giovanni da Tusa che aveva seppellito la cassa nel proprio convento.

interno S. Lucia al Borgo chiesa di S.Lucia al Borgo dopo il bombardamento chiesa di S. Lucia al Borgo - altare del Crocifisso chiesa di S. Lucia al Borgo - altare della Santa Fonte battesimale oggi alle Croci altare di S. Lucia altare maggiore Rilievo planimetrico del 1909 facciata

Alla scoperta della chiesa e del conservatorio di S. Agata alla Guilla

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di Giacomo Cangialosi

Cappella della Madonna della Grazia

Cappella della Madonna della Grazia

La chiesa, di fondazione molto antica, era già esistente ai tempi della monarchia normanna tanto che presso di essa esisteva una porta urbica che ne prendeva il nome. Prese il nome della santa martire in quanto si credeva che fosse stata edificata sulla dimora di S. Agata come accadde anche per la chiesa di S. Agata Li Scorruggi presso le Mura. Guilla, secondo l’Inveges, è corruzione di Villa ma è più certo che Guilla origini da un temine arabo che fa riferimento a una polla d’acqua originata dal Papireto che scorreva nelle vicinanze.

Alla fine del XV secolo la chiesa venne ricostruita quasi dalle fondamenta. Nel 1556 vi aveva sede una confraternita composta da nobili i quali nel 1580 accolsero anche la maestranza dei muratori che veneravano come patroni i Ss. Quattro Coronati, questi vi resiedettero fino al 1727. Nel 1685 don Girolamo Quaranta vi fondò un Conservatorio per alcune donne “levate dal peccato”, utilizzando alcune case poste dietro il presbiterio, che vennero denominate Maddalene pentite e molte Dame e Cavalieri si prodigarono con i loro beni per sostentare tali peccatrici che utilizzarono la detta chiesa per le loro devozioni. Dopo alcuni anni vennero acquistate altre case per cui il Conservatorio venne trasformato in monastero e, estinta la confraternita dei nobili, la chiesa restò nel possesso delle donne pentite.

Sono di questi anni gli abbellimenti barocchi dell’interno grazie anche alla munificenza di donna Isabella Maria Paceco duchessa di Uzeda. Negli ultimi decenni del XIX secolo la chiesa e il monastero passarono alle suore carmelitane scalze ed è di questo periodo l’infausto rimaneggiamento della chiesa che venne ridotta alla sola navata centrale mentre le laterali divennero locali di servizio. Dopo la seconda guerra mondiale la chiesa venne chiusa al culto con i danni che si possono immaginare: furti e spoliazioni. Nel 1995 venne effettuato un restauro strutturale e la chiesa e i locali del monastero vennero riaperti per visite occasionali, da anni ormai è nel più totale abbandono: ultima profanazione la scoperta di coltivatori di droghe all’interno del giardino del monastero.

La chiesa con facciata a capanna inserita tra due strutture turriformi, presenta un bellissimo portale gaginesco affiancato da due colonne intagliate, e in alto due loggette campanarie, i resti di un’altra porta e finestre gotiche li ritroviamo nella parete laterale destra su via S. Agata alla Guilla. All’ingresso il coro monastico sostenuto da colonne e l’unica navata rimasta con presbiterio semicircolare e quattro cappelle laterali, due per lato separate da due letterini per il coro. La volta e le pareti sono ornate da stucchi ormai in stato di degrado. Sull’altare maggiore era venerata un’immagine della SS. Trinità con Santi.

A sinistra nella prima cappella vi era una statua in marmo di “S. Agata”, in quella vicina al presbiterio l’affresco della “Madonna della Grazia” (trasformata in Madonna del Carmelo, con l’aggiunta nella mano dello scapolare, verosimilmente quando il monastero vene abitato dalle carmelitane) che si rese famosa per un miracolo “al contrario”: nel 1482 un giocatore che aveva dilapidato i suoi beni entrò in chiesa e, ritenendo la Vergine responsabile della sua sfortuna, la colpì con un pugnale, subito la Vergine impallidì e sanguinò, ma il reo, bloccato da una mano invisibile, non fu più capace di uscire dalla chiesa e, arrestato, venne condannato all’impiccagione. Mentre veniva condotto al patibolo avvenne un altro “miracolo”: nella facciata della casa di fronte la cappella della Madonna profanata venne fuori una pietra dove venne impiccato il malfattore. Maria Madre di Misericordia! In questa cappella era pure conservato il pugnale e la pietra segni del prodigio.

A destra nella prima cappella si trovava una tavola raffigurante “L’Annunziata”, copia di quella venerata a Firenze, e nell’ultima cappella dietro una grata erano venerate alcune reliquie (fra cui il nastro per legare i capelli) di S. Agata. Nella chiesa erano anche custoditi un bassorilievo alabastrino con la “Vergine che allatta” e una tela con i “Ss. Onofrio e Girolamo”, oggi entrambi al Museo Diocesano.

La tavola con l’Annunziata, invece, si trova oggi nella chiesa dei Ss. Quattro Coronati al Capo in quanto proprietà della maestranza dei muratori che la portò via quando si trasferì nella chiesa di S. Isidoro (oggi dei Ss.Quattro Coronati). In chiesa è rimasto solo l’affresco del miracolo e gli stucchi molto manomessi. Nel lato orientale della chiesa i resti del monastero con le cellette e un chiostro-giardino. La struttura monastica (compresa la chiesa) appartiene al Comune di Palermo ed è lasciata nel degrado assoluto.

Le foto per gentile concessione di Claudio Pezzillo

Chiesa di S. Agata alla Guilla facciata Madonna che allatta bassorilievo alabastrino gaginesco l'affresco con la Madonna del miracolo interno verso l'ingresso Chiesa di S. Agata alla Guilla interno Cappella della Madonna della Grazia

Le chiese delle nazioni straniere a Palermo

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di Giacomo Cangialosi

S.Giorgio dei GenovesiIntroduzione
Dopo la conquista da parte dei normanni, la Sicilia divenne luogo di commercio per molte città italiane e nazioni estere: i primi ad arrivare furono gli Amalfitani che diedero addirittura il nome al borgo che abitavano e dove avevano le loro attività commerciali; a questi seguirono i Pisani e i Genovesi mentre non è documentata la presenza della quarta repubblica marinara: i Veneziani.

Con la cacciata degli angioini, successiva alla guerra dei Vespri siciliani nel 1282, arrivarono anche i Catalani, i Lombardi, i Calabresi e ovviamente, per motivi geografici e storici, i Napoletani. Tutte queste realtà straniere si riunirono in corporazioni con consoli che li governavano ed erano protetti da privilegi reali e concessioni speciali. Ognuna di esse eresse intanto la propria chiesa che non aveva solo lo scopo di culto verso il loro santo protettore (a volte non coincidente in verità) ma era anche il luogo dove avvenivano le riunioni per deliberare.

Alcune ebbero anche delle logge, tutte presso il Garraffello, dove svolgevano i loro affari. Proprio queste logge diedero il nome ad un Mandamento. Con tali nazioni giunsero a Palermo anche molte famiglie nobiliari che incidettero notevolmente nella storia della città. Tutto rimase inalterato fino all’Unità d’Italia quando la presenza di queste “nazioni” non ebbe più alcun significato, solo la chiesa di S. Eulalia restò in proprietà della Spagna ed oggi è utilizzata dal centro studi Cervantes.

La maggior parte delle chiese delle “nazioni” estere si trovava presso i luoghi di commercio e quindi presso il mare, anche se i Pisani, che, in origine, avevano la sede presso l’antica chiesa di S. Zita si trasferirono poi alla Guilla cedendo la loro chiesa ai Domenicani i quali la utilizzarono per ingrandire l’acquisita chiesa della santa lucchese fondata probabilmente dai suoi concittadini. La ricchezza delle nazioni straniere è documentata anche dalle commissioni di opere d’arte ai maggiori artisti: ricordiamo come esempio Antonello Gagini che scolpì l’arco con bassorilievi per i lucchesi (chiesa di S. Zita) e gli affreschi della chiesa dei pisani realizzati da Guglielmo Borremans.

Oggi a Palermo troviamo ancora alcuni di questi sacri edifici mentre altri sono stati distrutti o utilizzati ad altri fini:
gli Amalfitani fondarono la chiesa di S. Andrea che addirittura fu parrocchia per alcuni anni, ceduta poi agli aromatari ed oggi proprietà dei farmacisti, è stata recentemente restaurata dopo l’improprio uso a vetreria e, spogliata di tutti gli arredi, continua ad essere chiusa;
i Genovesi ebbero all’inizio una cappella dedicata a S. Giorgio nel chiostro dei Conventuali ma, acquistata la chiesetta di S. Luca al Castellammare, la riedificarono dedicandola a S. Giorgio;
i Napoletani ebbero concessa all’inizio una chiesetta presso il Castello a Mare dedicata a S. Giovanni Battista ma, per motivi di sicurezza in caso di guerra, venne demolita e quindi i napoletani edificarono una nuova chiesa nella piazza Marina dedicandola allo stesso santo;
i Pisani ebbero la loro prima chiesa presso porta S. Giorgio dedicata ai Ss. Quaranta Martiri ma, per concessione fatta ai Domenicani, come già detto, si trasferirono alla Guilla dove innalzarono la nuova chiesa;
i Lombardi ebbero all’inizio una cappella dentro la parrocchia di S. Giacomo la Marina e anche la chiesetta di S. Sofia dei tavernieri (che erano per la maggior parte lombardi) e poi edificarono una loro chiesa alla Fieravecchia dedicandola a S. Carlo Borromeo, anche se dopo pochi decenni la cedettero ai Benedettini;
i Calabresi avevano la loro chiesa nel mandamento Palazzo Reale dedicata ai Ss. Giosafat e Liberale ma la cedettero ben presto ai macinatori di grano, nel 1943 venne completamente distrutta dai bombardamenti;
i Lucchesi (che gestivano il commercio dei tessuti) avevano edificato la chiesa di S. Zita ma, cedutala ai Domenicani, si trasferirono verosimilmente dietro il Monte di Pietà edificando la chiesa del Crocifisso di Lucca che dividevano con altre maestranze. Questa dopo il 1860 passò a privati ed oggi è in uno stato deplorevole, utilizzata come negozio e per qualche tempo come moschea;
i Catalani eressero alla Loggia la chiesa di S. Eulalia mai portata a termine e addirittura fecero arrivare da Barcellona le colonne di marmo;
i Greci avevano la loro chiesa presso l’Infermeria dei Cappuccini ed la dedicarono a S. Tommaso apostolo;
anche gli inglesi fondarono una chiesa a Palermo: S. Tommaso di Canterbury adiacente al palazzo del Protonotaro del Regno Papè Valdina.

Si pensa che sia stata edificata da inglesi fuggiti dalla loro patria a seguito della regina Giovanna Plantageneto moglie di Guglielmo II. Molto più recentemente (sec. XIX) le famiglie inglesi dimoranti a Palermo costruirono una loro chiesa in via Ingham (oggi via Roma) dedicandola alla S. Croce e officiata con rito anglicano.
Mi pare opportuno inserire pure la chiesa della Commenda di S. Giovanni alla Guilla dei Gerosolimitani e l’oratorio di S. Giovanni (detto S. Giovannuzzu) dei Cavalieri di Malta.
Da ricordare anche la cappella della Soledad, già nella distrutta chiesa di S. Demetrio nel piano del Palazzo, salvatasi fortunatamente dalle bombe e ancora oggi proprietà della nazione spagnola.

Distruzione delle logge della Vucciria Distruzione delle logge della Vucciria Piazza Caracciolo con le logge (disegno del Marchese di Villabianca) S.Giorgio dei Genovesi

Le chiese delle nazioni straniere: chiesa di S. Andrea degli Amalfitani

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di Giacomo Cangialosi 

chiesa di s. Andrea -interno

chiesa di s. Andrea -interno

La chiesa venne fondata al tempo di Ruggero II quando la città si aprì ai commerci e molte “nazioni” si riversarono a Palermo. Fra i primi furono proprio gli abitanti di Amalfi, una delle quattro repubbliche marinare, la cui presenza è già documentata e fiorente al tempo di Guglielmo I tanto che questa zona della Loggia viene chiamata da Ugo Falcando Borgo degli Amalfitani.

La memoria scritta più antica della chiesa, dedicata dagli amalfitani al loro santo patrono (e del quale nella chiesa avevano portato una reliquia del corpo) , è in un testamento del 1264. Fu parrocchia fino al 1301 anno in cui il titolo venne trasferito nella chiesa di S. Giacomo la Marina assumendone anche il titolo, già però nel 1346 (essendo andata in declino la repubblica di Amalfi) la chiesa apparteneva ad una confraternita dedicata a S. Andrea che interveniva alla processione del Corpus Domini. Nel 1579 vi venne aggregata la corporazione degli Aromatari (gli antenati dei moderni farmacisti) che dopo pochi decenni ne divennero gli unici proprietari tanto da restaurarla quasi dalle fondamenta e ridurla allo stato che ancora oggi mantiene.

La chiesa, che prospetta sulla omonima caratteristica piazzetta, presenta una bella facciata tardo-rinascimentale rivolta ad occidente con tre porte la maggiore delle quali, affiancata da due colonne e con timpano spezzato, era sovrastata da una statua marmorea del santo titolare (oggi scomparsa) dentro una nicchia.

Nella parete laterale che prospetta su via dell’Ambra alcune finestre gotiche testimoniano l’antica chiesa degli amalfitani. L’interno, rinnovato alla fine del XVIII secolo in stile neoclassico, è a croce greca con finta cupola lignea (realizzata a spese di Giuseppe Quattrosi aromataro) sostenuta da otto colonne. Vi sono due cappelle nelle braccia laterali e il presbiterio dove si trovava una tela attribuita allo Zoppo di Gangi, ma secondo alcuni di Antonio Manno, raffigurante S. Andrea apostolo.

Gli altari presentano cornici in stucco con timpano, in quello centrale una gloria anch’essa in stucco. Alle pareti affreschi neoclassici lumeggiati in oro in cattivo stato di conservazione. Nel pavimento vi era la lapide che dava accesso alla cripta su cui era inciso: “Omnia mors vincit, pharmaca nulla juvant” (La morte vince ogni cosa, nessun farmaco giova). Negli anni ’50 del XX secolo la chiesa venne affittata ad un vetraio con il successivo degrado che possiamo immaginare. Qualche anno fa è stato finalmente intrapreso un restauro della chiesa che ne ha permesso la riapertura per qualche giorno.

L’Ordine dei Farmacisti, che ne è proprietario, vorrebbe utilizzarla per conferenze e congressi ma attualmente è di nuovo chiusa. La chiesa è stata spogliata di tutti gli arredi, esiste ancora la tela del titolare custodita presso i locali dell’Ordine dei Farmacisti.

chiesa di s. Andrea -interno chiesa di S.Andrea- l'altare lastra tombale cripta s. Andrea Chiesa di S. Andrea

Zenzero… che passione!

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di Flavia Cascio 

zenzero - gingerLo zenzero (Zingiber officinale) è una pianta erbacea provvista di una radice carnosa e densamente ramificata. Originaria dell’Estremo Oriente, arriva in Europa già all’epoca dei Romani.

Viene ampiamente utilizzato come spezia, specie in forma essiccata e polverizzata, o fresco in fette sottili, utilizzato da millenni in India e in Cina anche come spezia alimentare, soprattutto in piatti a base di carne, come condimento o in salse, per la birra e altre bevande fermentate o per sciroppi e biscotti e per preparare un Curry particolarmente apprezzato in India.
I suoi principi attivi, responsabili delle sue caratteristiche proprietà benefiche, sono: olio essenziale, gingeroli e shogaoli (principi responsabili del sapore pungente), oltre che resine e mucillagini.

Recentemente è stato dimostrato che le sue proprietà antiossidanti possono essere sfruttate nel trattamento preventivo del tumore del colon retto, e le sue proprietà termogeniche lo rendono un buon alleato nei casi in cui è necessario un decremento ponderale, purché (è sempre bene ricordarlo) inserito all’interno di una corretta alimentazione.

E’ aromatizzante, digestivo (favorisce la digestione di glucidi e proteine), antireumatico, elimina i gas intestinali, contrasta i sintomi influenzali, riduce la sintomatologia dolorosa causata dal mal di testa o dal mal di denti. Inoltre ha proprietà antiemetiche in quanto contrasta la nausea e il vomito causati dalla gravidanza o dal mal d’auto (in questo caso è bene masticare un pezzetto di radice fresca più volte durante la giornata).

Per usufruire al meglio delle proprietà fitoterapiche dello zenzero è bene inserirlo nella dieta quotidiana, adoperando soprattutto la radice fresca. Questa può essere macinata e conservata in contenitori da riporre in luoghi freschi e asciutti, in modo da utilizzarla per speziare deliziosi secondi a base di carne o pesce. Può essere utilizzata per preparare decotti o tisane aromatizzate, ottimi in caso di raffreddore, mal di gola o mal di testa, o ancora per preparare una colazione o una merenda davvero deliziosa e originale: basta frullare insieme una pera, 50 ml di succo di mela o di acqua, un pezzetto di zenzero fresco e 10 ml di miele ed il gioco è fatto!

Le chiese delle nazioni straniere: chiesa di S. Giorgio dei Genovesi

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di Giacomo Cangialosi 

Lo stemma di Genova nella controfacciata

Lo stemma di Genova nella controfacciata

I genovesi ottennero, all’epoca del loro arrivo, una cappella nel chiostro di S. Francesco d’Assisi dedicata a S. Giorgio e all’interno di essa avevano posto un bassorilievo con il santo martire realizzato da Antonello Gagini (oggi posto dopo i restauri successivi all’ultima guerra nella seconda cappella di destra).

Nel 1576 si trasferirono nella chiesa attuale che era dedicata a S. Luca (oggi cripta) ed era proprietà di una confraternita con lo stesso titolo. Pertanto la distrussero e ricostruirono l’attuale secondo il progetto dell’architetto piemontese Giorgio Di Faccio, dedicandola a S. Giorgio.

La chiesa subì restauri alla fine del XIX secolo. Dopo la guerra venne spogliata dalle tele che l’adornavano che solo negli ultimi anni sono ritornati in sede mercè l’interessamento del rettore mons. Giuseppe Pecoraro.

La chiesa di S. Giorgio ha l’incompiuta facciata rivolta ad occidente, in essa sono tre portali mancanti delle mostre (mai realizzate), notevole il portone centrale, in alto due finestre cinquecentesche e nel secondo ordine un oculo con bellissima cornice, interessanti anche le due volute che raccordano il frontone centrale ai lati e che anticipano il barocco, è preceduta da una scalinata. Le facciate laterali sono rimaste incompiute. L’interno è a tre navate con transetto e cupola, gli archi sono sostenuti da gruppi di 4 colonne che si rifanno verosimilmente alla Cattedrale prima dei malaugurati “restauri“ di fine settecento. La cupola ottagonale è sostenuta da due ordini sovrapposti di colonne.

Vi sono tre cappelle per lato oggi mancanti degli altari ma con splendide cornici rinascimentali con gli stemmi dei committenti genovesi, due cappelle nel transetto e due ai lati del presbiterio. Sparsi per la chiesa sarcofagi (posti in arcosolii tra le cappelle) e lapidi della ricca comunità genovese (tra questi la tomba della pittrice Sofonisba Anguissola nel transetto di destra). Nella prima cappella di destra, patronato dei Rossino, troviamo una tela di Luca Giordano con la “Madonna del Rosario o delle Vittorie” del 1681; segue la cappella Giustiniani dov’è accolta la tela di Iacopo da Empoli raffigurante “Il martirio di S. Vincenzo da Saragozza” (1614), l’ultima di questo lato è la cappella Malocello ed è dedicata a S. Stefano con la tela del martire (1583) di Bernardo Castello.

L’altare del transetto era sotto il patronato della famiglia Di Bene e in origine era dedicata a S. Francesco di Paola con suo quadro poi sostituito con la tela di Palma il Giovane con “Il Battesimo di Cristo” (primo decennio del XVII secolo) che si trovava nel transetto opposto.

La cappella contigua al presbiterio è occupata dalla bella tela di “S. Luca che dipinge la Vergine” (1601) di Filippo Paladini già posta nella controfacciata e qua sistemata alla fine del XIX secolo. Nel presbiterio, spogliato dei marmi e degli stucchi barocchi, troneggia, sulla nuda parete, la tela di “S. Giorgio a cavallo” del 1637 opera di ignoto pittore siciliano. Notevole l’altare maggiore in marmi e vetri del 1784 sotto il quale è adagiata una statua marmorea di “S. Rosalia giacente” di G. B. Ragusa. Nella prima cappella di sinistra, patronato della famiglia Valanzoni, la tela di Gerardo Astorino raffigurante ”L’Estasi di S. Francesco” (secolo XVII); segue la cappella Pallavicino con la tela di Domenico Fiasella raffigurante “La Madonna Regina di Genova” (1637 circa), da notare nella parte inferiore del quadro la pianta di Genova; l’ultima di questo lato è la cappella Lomellino dedicata all’Annunziata con tela di Palma il Giovane (primo decennio del XVII secolo).

Nel transetto (cappella Signo) un “Crocifisso ligneo” su reliquiario del XVII secolo. Nella cappella adiacente al presbiterio la tela di Palma il Giovane raffigurante “Il martirio di S. Giorgio” del 1606. Nella controfacciata domina lo stemma di Genova retto da due animali fantastici. Presso la porta il pozzo dove annegò una bambina poi risuscitata dal Beato Pietro Geremia domenicano del vicino convento di S. Zita. Interessante la cripta, già chiesa di S. Luca, che si estende per tutta la navata centrale e un locale ipogeico recentemente ritrovato.

Lapide di Sofonisba Anguissola gruppo tetrastilo della navata Facciata chiesa di S. Giorgio Battesimo di Cristo Bassorilievo di Antonello Gagini Lo stemma di Genova nella controfacciata

La chiesa di S. Giovanni dei Napoletani

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di Giacomo Cangialosi 

Interno della chiesa Foto di Nuccio La Mantia

Interno della chiesa Foto di Nuccio La Mantia

I napoletani ebbero la loro prima sede in una chiesa eretta dietro la chiesa della Madonna di Piedigrotta e che era stata fondata nel 1088 e dedicata a S. Giovanni Battista dai principi normanni.

Tale chiesa era annessa ad un monastero cistercense dipendente da quello di Santo Spirito fuori le mura e in seguito venne annessa ad un ospedale.

Nel 1519 i napoletani residenti a Palermo si riunirono in una congregazione e ottennero dal Rettore dell’Ospedale Grande l’uso di questa chiesa. Ma dopo pochi anni, nel 1526, Carlo V ordinò che l’edificio venisse demolita in quanto impediva le operazioni belliche del vicino Castello a Mare e i napoletani ottennero un terreno di fronte la chiesa della Catena per erigervi un nuovo tempio, il cui architetto fu Giuseppe Giacalone, terminato nel 1617 e dedicato sempre al Battista.

La chiesa veniva amministrata con le rendite pagate dagli stessi napoletani e non dipendeva dall’Ordinario ma dal Giudice della Regia Monarchia. All’inizio la chiesa era preceduta da un portico più ampio dell’attuale ma, quando nel 1581 venne prolungato il Cassaro, essendo ancora la chiesa in costruzione, il portico venne tagliato negli spigoli assumendo l’aspetto poligonale attuale.

Nel XVIII secolo venne arricchita da stucchi lumeggiati in oro opera di Procopio Serpotta. Oggi i tre fornici sono semi-tampognati per motivi statici successivi al terremoto del 1823. In questa chiesa era molto venerato S. Gennaro tanto che i reali borbonici nel 1799 per la prima volta vi furono accolti per il giorno festivo del patrono dei napoletani.

La chiesa ha due porte: una con bel portale rinascimentale sotto il portico rivolta ad oriente ed un’altra che da sulla piazza Marina sovrastata dal campanile. L’interno è a tre navate separate da colonne di granito, transetto e una cupoletta maiolicata all’esterno molto caratteristica che insiste su un tiburio ottagonale.

Nella controfacciata in basso due edicole marmoree cinquecentesche e in alto il letterino per l’organo che era stato realizzato dal celebre organaro Raffaele La Valle, nella balconata si trovavano quindici quadretti con i Misteri del Rosario (oggi non più esistenti come anche l’organo) opere di Vincenzo Romano.

Sull’altare maggiore, dove un tempo vi era una tavola con la “Madonna del Rosario”, fu poi posta una “Sacra Famiglia”. Adiacenti al presbiterio vi sono due cappelle: in quella di sinistra vi era il quadro con “L’Annunciazione” e in quella di destra la “SS. Trinità” (oggi alla Galleria Regionale di Palazzo Abatellis) entrambi di Giuseppe Albina detto il Sozzo.

Notevoli quattro statue in stucco di Procopio Serpotta raffiguranti la Verginità, la Grazia, la Giustizia e la Fertilità. Nella navata destra vi sono, dietro una bella balaustra in marmi mischi, la cappella con decorazioni anch’esse in marmi mischi di S. Giovanni Battista con la statua in marmo gaginesca trasferita dall’antica chiesa, la cappella di S. Gennaro e quella di S. Rosalia. Nella volta era un affresco dello Zoppo di Gangi raffigurante il titolare della chiesa.

Dopo gli anni ’60 del XX secolo la chiesa rimase chiusa per molti decenni fino a che, restaurata, è stata riaperta al pubblico. Oggi si presenta spoglia dei quadri che l’adornavano, resta solo la statua del Battista nel suo altare barocco, le statue delle Virtù, alcuni monumenti funerari tra cui quello dei Trabucco benefattori della chiesa e sull’altare maggiore una statua settecentesca lignea raffigurante La Madonna con il Bambino. In un vano presso l’altare e in alcune stanze del piano superiore sopra il portico degni di nota i tetti con travi dipinte.

Le foto per gentile concessione dell’amico Nuccio La Mantia

Volta della chiesa

 Foto di Nuccio La Mantia La chiesa vista da piazza Marina
 Foto di Nuccio La Mantia Interno della chiesa 
Foto di Nuccio La Mantia ingresso della chiesa Foto di Nuccio La Mantia Altare di S. Giovanni Battista 

Foto di Nuccio La Mantia

Chiesa dei Ss. Quaranta Martiri dei Pisani

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di Giacomo Cangialosi 

L’originaria chiesa dei Ss. Quaranta Martiri dei pisani, che giunsero a Palermo nel 1509 quando Pisa cadde sotto la dominazione fiorentina, si trovava nel mandamento della Loggia dove oggi sorge il presbiterio e il transetto sinistro della chiesa di S. Zita. 

Erano nobili che preferirono lasciare la patria piuttosto che sottomettersi ai vincitori: le famiglie Settimo, Alliata, Bonanno, Galletti, Palmerini, Gambacurta, Sitajolo, Vernagallo, Gaetani, Corvino e Vanni. Nel 1605 i nobili pisani la cedettero ai padri predicatori per ingrandire la loro chiesa e nello stesso anno, acquistato un terreno nei pressi della Commenda di S. Giovanni alla Guilla, fabbricarono l’attuale chiesa.

Il prospetto è orientato a meridione e il presbiterio a nord. Sul portale, con timpano spezzato, lo stemma della repubblica marinara pisana e in alto ai lati due finestre . L’interno a pianta rettangolare con due profonde cappelle laterali che simulano un transetto fu affrescato interamente nel 1725 da Guglielmo Borremans (la cui firma è ancora visibile nell’affresco della controfacciata) con storie del patrono di Pisa S. Ranieri e con medaglioni nei pilastri con paesaggi della citta stessa.

Gli affreschi, inquadrati dentro architetture illusionistiche di Gaetano Lazzara, presentano lumeggiature in oro apprezzabili soprattutto nel magnifico soffitto dipinto con “L’Assunzione della Vergine”. Il presbiterio affrescato a tromp l’oeil dà il senso di una grande profondità. La cappella del lato sinistro era dedicata al SS. Crocifisso con immagine dello stesso e ai lati affreschi tematici, la cappella di destra era dedicata a S. Raineri con quadro dello stesso e ai lati affreschi con storie della sua vita.

Il presbiterio era adornato dalla tavola dei “Ss. Quaranta Martiri di Sebaste” dipinta da Vincenzo di Pavia nel 1551. Il pavimento in maiolica è esistente anche se molto deteriorato, vi si trovava una lapide che dava accesso alla sepoltura dei pisani con scritto “Sepulcrum pisanorum”. Nel 1958 la chiesa venne affidata alla confraternita dell’Addolorata dei Sette Dolori (proveniente dalla chiesa di S. Maruzza chiusa al culto l’anno prima) dopo che era stata utilizzata impropriamente come lavanderia con il degrado di parte degli affreschi soprattutto nel lato sinistro del presbiterio. In questi anni vennero pure realizzate le due nicchie ai lati del portone sulla facciata. Nella parte sinistra della chiesa sono i resti di una casa con portico neogotico (esistente in parte) appartenuta un tempo a Giulia Severino e ceduta poi ai nobili Pisani, oggi è utilizzata dalla confraternita e dal rettore della chiesa.

Oggi gli affreschi sono molto degradati per l’incuria, per l’improprio utilizzo e per l’umidità che proviene dal terreno (siamo sulle sponde del Papireto). Le due cappelle laterali attualmente sono dedicate la sinistra a S. Maruzza con statua secentesca proveniente dalla chiesa omonima e la destra all’Addolorata con statua tardo-ottocentesca proveniente dalla stessa chiesa. Sull’altare uno splendido Crocifisso ligneo settecentesco proveniente dalla chiesa dei Ss. Cosma e Damiano come anche i due angeli portacero. Notevole l’altare maggiore in legno intagliato. Nella parete sinistra un quadro settecentesco con il “Martirio di S. Torpè”. La tavola di Vincenzo di Pavia è custodita alla Galleria di Palazzo Abatellis. Dal soffitto pende una grande ninfa in rame e cristalli recuperata dalla chiesa di S. Vincenzo dei confettieri demolita per la realizzazione della via Roma.

Altare Maggiore e Crocifisso Chiesa dei Ss. 40 Martiri alla Guilla negli anni '50 Statua della Madonna dei Sette Dolori Affresco della controfacciata con la firma del Borremans Affresco della volta Statua di S. Maruzza

Le chiese delle nazioni straniere: chiesa di S. Carlo dei Lombardi

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di Giacomo Cangialosi 

Il Card. De Giorgi nella chiesa di S. Carlo

Il Card. De Giorgi nella chiesa di S. Carlo

All’inizio i Lombardi residenti a Palermo e che gestivano il commercio del vino ebbero una cappella dedicata alla Flagellazione di Cristo con sepoltura nella chiesa parrocchiale di S. Giacomo la Marina, in essa si trovavano notevoli quadri di Vincenzo di Pavia, ma, volendo essere autonomi e per maggiore prestigio della loro nazione acquistarono alcune case alla Fieravecchia e nel 1616 edificarono una nuova chiesa dedicandola a S. Carlo Borromeo.

La chiesa venne benedetta il 31 ottobre dello stesso anno dal Vicario Generale del cardinale Doria, don Francesco Bisso, dopo pochi anni vi costruirono accanto un ospedale per i loro connazionali. Dopo circa 20 anni dalla fondazione però l’abate di S. Martino, don Alessandro Orioles, chiese e ottenne questa chiesa come ospizio per il proprio monastero dentro la città e acquistò dai lombardi la chiesa e le case riservandosi questi solo una cappella nel lato sinistro dove fosse anche la sepoltura.

Inoltre i lombardi pretesero che, dovendosi ricostruire la chiesa, mantenesse il titolo di S. Carlo Borromeo. Nel 1643 si

rettoria di S.Carlo

rettoria di S.Carlo

cominciò a riedificarla insieme ad un piccolo monastero e venne riaperta il 19 marzo del 1648. La facciata di sobrio disegno venne completata solo nel 1687 secondo il disegno dell’architetto Giacomo Amato.

L’interno, preceduto da un piccolo vestibolo, è a pianta ellittica con cupola senza lanterna con presbiterio e due grandi cappelle nei lati lunghi dell’ellisse e quattro piccole negli angoli. Presenta notevoli decorazioni a marmi mischi e tramischi che ne fanno (o sarebbe meglio dire ne facevano) una delle chiese barocche più sontuose della città. La cupola che era affrescata da Pietro Martorana venne ridipinta nel 1892 da Carmelo Giarrizzo, nei pennacchi le allegorie dei quattro continenti allora conosciuti. Dietro l’altare maggiore vi era il coro per l’ufficiatura e vi si venerava un’immagine della Vergine su tavola che era appartenuta al Vicerè marchese di Vigliena.

Nella grande cappella di destra si trovava la tela di Pietro Novelli con “I Ss. Benedetto e Luigi IX re di Francia” (forse lasciato incompiuto dal maestro per la prematura morte e completato dal figlio) con ai lati affreschi di Carlo Anselmo. Nella grande cappella dei Lombardi, di fronte a questa, si venerava il quadro di S. Carlo del lombardo Vincenzo Vallone e nel pavimento vi è la sepoltura degli stessi. In una cappella angolare vi era il quadro dl Battista copia di quello di Filippo Paladino che si trova nella chiesa di S. Martino delle Scale; in un’altra si trovava la tela con “La Vergine e santi benedettini” e un altro quadro raffigurante “S. Carlo” di Vincenzo Santafede; in un’altra ancora si trova un Crocifisso ligneo privo però del reliquiario ligneo dove era poggiato.

Vergine con i Ss. Benedetto e Luigi - Pietro Novelli

Vergine con i Ss. Benedetto e Luigi – Pietro Novelli

Oggi la chiesa, depredata di molti marmi e arredi, è solo un’ombra della magnifica chiesa barocca voluta dai Benedettini, le opere pittoriche sono state trasferite, per sicurezza, al Museo Diocesano, mentre gli affreschi versano in uno stato deplorevole. Ogni giorno vi ha sede la mensa della Charitas Diocesana. Accanto alla chiesa vi sono ancora alcuni ambienti già monastero cassiniense e poi casa del Rettore della chiesa.

Da ricordare che anche i tavernieri, tutti di origine lombarda, avevano una loro chiesetta dedicata a S. Sofia edificata nel 1589 all’interno dell’atrio di Palazzo Vannucci sul Cassaro. Questa, ormai ridotta allo stato di rudere dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale e la successiva incuria, attende un restauro che la salvi dal crollo. Resti della facciata barocca possono ancora osservarsi attraversando l’arco di S. Sofia.

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